Discoteca

Discoteca Book Cover Discoteca
Andrea Di Consoli
Palomar
2003
9788888872179

Racconta Andrea Di Consoli: “Ho scritto queste poesie tra la fine del 2001 e i primi mesi del 2003. Le ho scritte nella mia piccola casa di via San Marino, a Roma. Mai come in quel periodo – che non si è ancora concluso – sono stato assillato dai fantasmi del mio passato, da paure, da commozioni assurde e insonnie feroci. Mi è sembrato di impazzire, tante erano le cose che mi si affollavano dentro. Ho avvertito la necessità di fare i conti con le troppe persone che abitano la mia testa” (Nota Finale, p. 149). E così è stato.

Opera seconda di Andrea Di Consoli (ha esordito pubblicando il saggio “Le due Napoli di Domenico Rea” nel 2002), pubblicata nel 2003, “Discoteca” è la prima raccolta di versi dell'artista lucano. È strutturata in quattro sezioni: “Discoteca meridionale”, “La condizione umana”, “Confessioni”, “Inferno”.

Incipit “Discoteca meridionale”: è elegia dell'adolescenza, delle prime sbronze, degli amorazzi: “Era tutto un bruciare di facce / Tutto un trafficare di sguardi / E di cognac bevuti coi brividi alla schiena” (p. 11): adesso, adulto, il poeta si volta alle spalle per accorgersi che nessuno sa più niente “di certi stratagemmi e di certi rossori”. Erano anni di rabbia e malinconia: infine, “abbiamo fatto un giro immenso / per essere al punto di partenza” (p. 13). Chi è partito si è soltanto trovato “straniero due volte”: adesso, il poeta deve “dare conto solo a me stesso / del grande gelo di questa notte” (p. 14). Ricordando magari quando ascoltava i suoi compagni cantare le canzoni dei briganti: e pur senza che nessuno ne sapesse niente davvero, o brigante fosse stato mai, sentivano un brivido lungo la schiena.

Com'era la vita al di là della simbolica discoteca? “Noi stavamo nascosti in una saletta bianca di bar / Passavamo la mattinata intera a giocare a carte / Qualcuno s'accaniva al flipper / Qualcun altro leggeva la Gazzetta dello Sport” (p. 17): giorni interi passati al bar, con il peso del tempo e della colpa: “eppure certi sogni li avevamo”, scrive ADC, pure se si marinava la scuola e si passavano le giornate a far niente. Erano pronti, ripete il poeta, pronti a qualsiasi cosa. Mancava soltanto l'obbiettivo. Così, “Capita in certe situazioni di offrire a tutti da bere / con il nascosto desiderio di vedere la tristezza degli altri / di vederla affiorare dall'orlo di un bicchiere” (p. 27).

Si intravedono le ferite dell'emigrazione nei primi versi dedicati alla Svizzera (notevole, p. 61, seconda sezione: “Vorrebbero essere belle / come le ragazze italiane (...)”), o nell'excursus americano: una notte ADC scopre un sito che include tutti i nomi degli italiani approdati a Ellis Island; tra di loro, una compaesana. “Una certa Nunzia Di Sanzo / Una migrante del mio paese d'origine / Il mio paese di origine si chiama Rotonda / Ma nella registrazione c'era scritto Retonda / Gli americani storpiavano i nomi” (p. 33).

Seconda sezione: “La condizione umana”. Il poeta s'addormenta dopo aver molto fumato e letto; estate romana deliziosa e solitaria, e “Eppure è bello sentire questo scirocco / sulla pelle, sentirsi così soli / e così tremendamente corporali. / E' assolutamente necessario vivere / sapendo che siamo tempo, / che siamo durata” (p. 42). Siamo fatti di tempo, ripete ADC, e certe volte guardiamo la luna. Siamo “compagni per caso di un'avventura non decisa / rassegnati dirimpettai del nulla” (p. 47). Niente può finire, in ogni caso, non adesso: non così, perché “ci sono conti da rifare / ragioni da riscattare” (p. 64). Il corpo, è bene ricordarlo, tradisce: il corpo è una menzogna (p. 70).

Il poeta si interroga su tutto quel che alla nostra razza è sempre successo: ribadendo che “solo l'amore guarisce le persone / solo l'amore” (p. 55).

“Gli amori di cui non sapremo mai niente / Gli amori mai confessati / La paura di confessare un amore / Tutto l'amore che ci è sfuggito / Tutto l'amore che è successo / I pensieri di cui non è rimasta traccia / Le nottate passate a piangere o a sognare / Tutto l'amore che c'è stato / Gli amori clandestini / Gli amori che fanno fare le pazzie / E' sempre successo”.

Segnalo, prima di passare alla terza sezione, una toccante e intelligente poesia sulle radio: sulle radio amatoriali e sulle radio commerciali, in Italia: i primi versi dicono semplicemente “E' bello ascoltare la radio / specialmente le radio locali / che fanno molta musica / perché non hanno gli speaker”; poi sembra di assistere a una piccola Spoon River delle FM. Una presenza quotidiana nelle nostre vite che nessuno sembrava voler registrare. Ben fatto (cfr. pp. 68-69).

“Confessioni”, allora. Terza parte di “Discoteca”. ADC scrive a cuore aperto; la sua poesia si ibrida con la prosa, la prosa esistenzialista. Sembra di ritrovare un suo contemporaneo, il Karlsen di “Postnovecento”: sentite qui: “Ti accorgi che hai freddo e che fumi troppo che non puoi / Ostinatamente continuare a scrivere come se tu fossi / Un dio senza bisogni senza bisogno di carezze / Un superuomo che non può mai piangere / Poi davvero non capisco la mia angoscia quando sono felice / Chissà cosa mi passa per la testa e quel bisogno di scappare / Di andare a scrivere a leggere a lavorare a chiudermi / In ufficio (…)”.

ADC racconta la paura di morire dopo l'amata, rifiutando l'idea che nell'infinito vagare dell'universo le loro anime possano smarrirsi; racconta l'insonnia, le letture notturne, lo smarrimento e le piccole nevrosi; questo terzo pannello è il pannello della solitudine, del “sentirsi soli al mondo” (p. 86). Giovane vecchio, come Ian Curtis, Di Consoli canta: “Ci sono coppie di ragazzi della mia età / che la sera vanno insieme al cinema / da come sorridono si capisce / che hanno fatto l'amore tutto il pomeriggio / Hanno un codice tutto loro / Sarebbe stato bello / Accettare la vita senza pensarci troppo” (p. 96).

Canta la sconfitta, le cose trascorse senza lasciare traccia, le occasioni perdute. Ed ecco s'avvicina l'”Inferno”, il quarto pannello. Morire, come piangere, come fumare, come manifestare, è sempre diverso e differente per tutti: sappiamo, ma non ne veniamo a capo. Tuttavia, “la rabbia è già una soluzione”, suggerisce Di Consoli (p.117): si può imparare a non distinguere più l'odio dall'amore, tutto a un tratto. Arriva la paura. La paura della vita. “Essere imbarazzati di pesare così tanto / Immaginare di morire quando si è ancora vivi” (p. 131). Ti sostiene lo stupendo, virile amore per il padre (p. 126) malato, e ADC dice “Adesso faccio passare un po' di tempo / ma poi scendo giù e me lo butto sulle spalle / proprio come fece Enea con suo padre”: sono versi d'una innocenza infantile e d'una intensità che sembra farsi materia. Come quando Di Consoli scrive d'aver capito che la letteratura è malattia (p. 137), espressione d'un malessere che ti tormenta; adesso vuole “assolutamente dare un senso al nulla / ai gesti che si preparano a morire” (p. 146); ché il nulla ha creato tutta questa giostra per alimentare il suo regno.

La vita, dice Andrea, è veramente colossale. “Quello spettacolo farà paura / ma poi sorrideremo / e ciascuno di noi sorriderà prima di bruciare”. Bruciare.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Andrea Di Consoli (Zurigo, 1976), giornalista, poeta, saggista e narratore lucano. Vive e lavora a Roma; lavora come consulente editoriale.

Andrea Di Consoli, “Discoteca”, Palomar, Bari 2003. In calce, Nota Finale di ADC. Bandella di Michele Trecca.

Gianfranco Franchi, aprile 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.