Edizioni Acume
2007
Epigrafe di Nazim Hikmet (“Voglio andarmene in giro / a vedere / e pesci e frutti e stelle / che non conosco, / a sentire la risacca dei mari remoti”) viatico ideale a questo poemetto di Ugo Magnanti, artista nettunense classe 1964, che vorrei piuttosto introdurre e presentare con un frammento di Paul Valéry:
Et vous, grand âme, espérez-vous un songe
Qui n’aura plus ces couleurs de mensonge
Qu’aux yeux de chair l’onde et l’or font ici?
Chanterez-vous quand serez vaporeuse?
Allez! Tout fuit! Ma présence est poreuse,
La sainte impatience meurt aussi!
(vv. 97-102, “Le cimitière marin”).
Risponderebbe Magnanti:
Affiorando con gli altri dopo un tuffo
Fui imperfetto, segnato con un crisma
Così per troppa luce fu perfetto,
chi invece non riemerse più dall’onda
(19, “20 Risacche”).
Scrivevo, a proposito del suo precedente “Rapido blè”: “Magnanti conosce la grazia, l’intelligenza e la profondità di un Luciano Erba. Lo stile del poeta milanese, egualmente sensibile alla lezione del maestro Ungaretti, mi sembra possa essere ascritto tra i modelli della raccolta. Settanta poesie, introdotte da un richiamo baudelairiano (“Seigneur mon Dieu, accordez-moi la grâce de produire quelques beaux vers qui me prouvent a moi-même que je ne suis pas le dernier des hommes”), a costituire l’origine d’un percorso che accompagna il lettore fino alla visione del “rapido blé”.
Qui l’artista ci accompagna non a una visione, ma alla rivelazione dell’essenza del mare: accompagnarci e muoversi con noi, e non noi a muoverci con lui; consapevolezza differita, “ormai di spalle alla risacca e al vento”. Questo suo poemetto è disossato e scarnificato, levigato sin quasi a mostrare le cancellature dell’autore: avanza sino a guardare il colore dell’infinito, consapevole delle passate illusioni (“dall’orizzonte distogliendo gli occhi, / seguimmo i guizzi di una perla falsa, / persino ci bastò la sabbia e il sale, / ma certo non bastò la luce all’alga”, 7) e dell’osservazione attonita, dalla terra, degli spettrali e non più simili esseri umani (“Così essi scoprirono la gittata / del polso emerso dall’acqua, e la forma / dell’amo che si frange nella bocca; a riva, più non furono gli stessi”, 3): s’osserva sgomenti e silenziosi chi nel mare, dal mare si sta battendo per la verità, e per il termine della ricerca, “senza sapere a cosa andare incontro”, 17. L’illuminazione è la durata de “la bianca originaria altezza delle / onde; ero solo un lettore di segni”, 13). E nome non può averne ancora, che non sia nome nuovo.
Lasciammo le conchiglie dentro un certo
recipiente di vetro, senza vento
senza un nome, né greco e né latino:
su questo non ci parve avere dubbi
(4, “20 Risacche”)
Vorrei tributare a Ugo Magnanti un saluto e un ringraziamento vero e vivo, da letterato a letterato, per l’ispirazione che ha sentito di condividere con chi nella ricerca dell’essenza, per la ricerca dell’essenza vive. Così, assieme a questi appunti di lettura, ho proposto all’autore un’intervista, destinata a illustrare diversi ambiti della sua esistenza e della sua attività artistica e culturale, in generale: che scoprirete atipica, personalissima, necessaria. Nuova. A voi.
GF: Incontriamo Ugo Magnanti, letterato classe 1964, poeta ed editore originario di Nettuno. Cominciamo dalla poesia. Qual è stata la tua formazione? Quali sono stati gli artisti più influenti e quali quelli più amati, al di là dei già omaggiati Baudelaire e Hikmet? Quando – consapevolmente – hai cominciato a scrivere versi?
UM: La mia è stata una formazione poetica abbastanza ordinaria, direi persino ‘scolastica’, intrapresa assecondando e approfondendo con un piacere un po’ morboso, spesso privo di condivisioni, gli stimoli provenienti dalle antologie letterarie di adozione scolastica, e da qualche insegnante istintivamente incline, aldilà delle intenzioni, a plasmare, per la verità più con suggestioni che con argomenti, un’adolescenza permeabilissima come la mia. Nella lettura di quelle antologie, alcune già appartenute a mio fratello, o a qualche zio, e a volte recuperate in cantina, avevo una speciale mania per le ultime pagine, sulle quali i versi mi sembravano di una bellezza abbagliante. Credo dunque che la triade novecentesca italiana (Montale in particolare), sulla quale ho torbidamente vagheggiato in quegli anni, al punto forse di assimilarne la tensione verso lo “scabro” e l’“essenziale”, abbia prodotto gli esiti più rilevanti sulla mia scrittura, e sull’approccio alle mie letture successive. Del resto “Rapido blé”, il mio primo libro, affonda le sue radici, come alcuni hanno notato, in quell’‘humus’ letterario, e, aggiungo, in quella stagione della mia vita, anche se è stato scritto ed elaborato, e soprattutto limato, molto più tardi. Per questo mi sono spesso sentito un ‘attardato’, un poeta attestato su una linea neo-ermetica, nonostante qualcuno, persino in ambito universitario, abbia definito quelle poesie, ‘sperimentali’; definizione paradossale, che forse rivela una capacità di lettura ancora più ‘attardata’. In merito alla mia prima formazione, devo poi dire che ho spesso compiuto significativi salti all’indietro, in particolare verso l’Ottocento italiano, e ancora più in particolare sui “Canti” di Leopardi, opera che ho molto amato. Vere e proprie rivelazioni, come ad esempio “Le ceneri di Gramsci”, peraltro un libro che trasfigura modelli letterari remoti, hanno rappresentato per me l’esigenza, mai coltivata con rigore, di approfondire la contemporaneità, che mi è sempre sfuggita, forse anche per marginalità geografica, o per carenza di occasioni, come oggi credo continui a sfuggirmi, al contrario, per eccesso di situazioni e di materiali, ai quali è molto difficile dare un ordine, anche perché oggi un ordine non mi sembra più così necessario. Altre letture poetiche di vario genere, alquanto avide ma scriteriate, compiute nelle direzioni più diverse, credo abbiano percorso un lungo alveo sotterraneo, e stiano riemergendo gradualmente nella mia poesia di oggi.
In merito a Luciano Erba, ti ringrazio per l’accostamento, ma penso di essere abbastanza lontano, purtroppo, dalla sublime ironia che egli adotta come chiave di interpretazione della realtà. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, devo dire che ho iniziato a scrivere presto, e con una consapevolezza precoce, della quale oggi, nel ripensarci, francamente mi sorprendo. Poi ho avuto lunghi allontanamenti, dettati dall’indolenza o da nuove infatuazioni, e ritorni improvvisi, ma il momento topico in cui è cominciato per me un esercizio poetico maturo, aldilà degli esiti, opinabili, credo sia rappresentato dalla morte di mio padre, anche se poi sono trascorsi altri dieci anni da quell’evento alla pubblicazione di “Rapido blé”, nei quali ho vissuto appartato, e non ho mai avuto l’esigenza di far conoscere le mie poesie, se non a qualche intimo, e solo in parte esigua. Di fatto sono sempre stato, e continuo ad essere, un poeta parco, o, per la verità, un poeta pigro, che tende così a sperperare un talento che tuttavia in qualche misura si riconosce. Eppure trovo ci sia qualcosa di bello nel parziale spreco di sé, in virtù del quale si riesce sempre a crescere sotto un’altra forma e un altro modo, come un “principio / selvaggio – di rovo, d’ortica” che occhieggia “fra l’esiguo / respiro dei lastrici”, “in strade non ancora suburbane”. “Del resto”, citando ancora Silvio Ramat, “è il peccato, sono i torti / a far di un uomo un santo. In più posso dire che la mia ossessione per il “labor limae” è spossante, e che la pigrizia è una mia caratteristica dominante, anche se, almeno in questo campo, non del tutto negativa, in quanto funge da consigliabile ‘anticoncezionale’, e dunque da personale contributo rispetto a una generale ‘demografia lirica’ che tocca livelli di guardia, e della quale in qualche modo mi sento complice: ma un complice non abbastanza pentito.
GF: Quando, e perché nasce “Ugo Magnanti Editore”? Qual è la struttura della casa editrice, e qual è la sua missione? Quali opere sono attualmente in catalogo, e come sono reperibili?
UM: La mia limitatissima attività inizia nel 1993, con le “Novelle morali eloquentissime” di Paolo Segneri, uno dei “tre grandi gesuiti”, in senso letterario, s’intende, del Seicento italiano, opera proposta e curata per una banca, nella quale c’è già tutto il carattere editoriale dei pochi altri libri che ho pubblicato negli anni successivi: ispirazione territoriale ma respiro nazionale, collaborazioni con le università, cura attenta della grafica, delle illustrazioni, dei materiali e della stampa. Si tratta di una piccola editoria ‘passionale’, che nasce da un interesse per i libri, e soprattutto come piccolo contributo di ‘riqualificazione culturale’ in ambito territoriale, non solo attraverso le edizioni, ma anche attraverso le proposte ad esse collegate: presentazioni, interventi a convegni, letture, rassegne, ecc. Nonostante la modestia di questa iniziativa editoriale e culturale, negli anni ho avuto l’opportunità di collaborare con scrittori come Vittorio Emiliani, artisti come Leopoldo e Flavia Mastrella, docenti universitari come Quinto Marini, Bianca Tavassi La Greca, Yves Perrin, o come Giorgio Inglese, Aldo Mastropasqua e Rocco Paternostro, con i quali, ad esempio, abbiamo realizzato un’operetta preziosa come la plaquette, “Lo sguardo e lo specchio, tre studi sull’Alba di un mondo nuovo di Alberto Asor Rosa”. Con Rocco Paternostro in particolare abbiamo avviato la pubblicazione dell’annuario di critica letteraria, teatrale e cinematografica, “l’Abaco”, ma abbiamo realizzato anche altre preziose operette, come ad esempio, la plaquette “La Sposa”, del poeta rumeno Tudor Arghezi.
Per indole personale, o per ‘forma mentis’, vissute come limite, intendiamoci, non ho mai pensato a una casa editrice vera e propria, cioè che tenesse in considerazione anche l’aspetto commerciale. Quasi sempre ho avuto la possibilità di ‘stampare’ grazie ai piccoli interventi di qualche ente, come banche, comuni, associazioni, che in provincia sono forse più accessibili. Dunque non vi è una struttura, o meglio, la struttura coincide con la mia persona. Per queste ragioni al momento è in corso una modifica formale delle edizioni u.m., che diventeranno un’associazione culturale, e saranno così finalmente legittimate ad ignorare, senza sensi di colpa, per quanto possibile, l’aspetto commerciale della faccenda: o forse proprio allora potranno cominciare a prenderlo in considerazione. La missione di ‘riqualificazione culturale’ in ambito territoriale resterà la stessa, ma con maggiore attenzione alla poesia, con la quale cercheremo anche di espandere, in spazio geografico e in qualità, la nostra presenza: nel nostro piccolo ovviamente, e per iniziare, con una collana di plaquette poetiche. I pochi testi relativi alle collane “Il limbo”, “Quaderni dell’Abaco” “Altri Sali”, e lo stesso annuario “l’Abaco”, sono tutti a tiratura rigorosamente limitata, e non hanno una vera e propria distribuzione, se non in pochissime librerie, per le ragioni di cui dicevo. Per paradosso, proprio nel momento in cui ci accingiamo a diventare una associazione culturale, ci proponiamo al contempo nell’immediato futuro, di curare in modo più professionale, per quanto circoscritto, anche la dolente nota distributiva.
GF: Sei un poeta-performer: raccontaci qualcosa sul tuo poemetto visivo “Alfabeti”, sulle tue poesie-oggetto come “Poemisole” e “Raskòlnikov” e sulle “Tre poesie-azione del poeta egoista”. Cosa significa “poesia-oggetto”, e cosa significa “poemetto visivo”?
UM: La definizione di poeta-performer mi pare eccessiva, perché è soltanto da due anni che sperimento il suadente impulso di oltrepassare la pagina scritta, peraltro in modo ‘impuro’, cioè piegando ad intenti performativi poesie nate per la pagina, benché utilizzandole in contesti appropriati. Sono un neofita, insomma, ma se considero il lungo periodo che precede questi due anni come un periodo di incubazione latente, in cui ho vissuto nei miei rapporti con le epifanie poetiche un’attrazione non del tutto riconoscibile, eppure presente, ma in una forma compressa, penso che i tempi e il significato della mia esperienza risultino più dilatati. In ogni caso, al momento sono interessato anche a questo aspetto della poesia, e alla possibilità di sperimentarne, come ancora non ho fatto, le prerogative specifiche. Ma sul futuro non posso garantire, troppo incostanti sono le mie passioni, e a volte bruciano in fretta, e forse una parte notevole della loro ragione d’essere è legata, quasi al punto di negarsi in sé e per sé, agli incontri, alle condivisioni con persone importanti, che spesso segnano il mio sguardo con la loro ‘grazia’ e la loro bellezza, ma non sempre mi rimangono accanto. Per tutte queste ragioni, oggi preferirei evitare la definizione di ‘poeta-performer’, e anche per riguardo a quelli che lo sono davvero. Forse un giorno lo sarò anche io.
Devo dire poi, che la stessa edizione di “Rapido blé”, il mio primo libro, scritto, come accennavo, in dieci anni, risale al 2003, per cui anche le mie ‘esternazioni’ poetiche sulla pagina scritta e stampata risultano recenti. Il poemetto visivo “Alfabeti” non ha niente a che vedere con un’idea di rivalsa ironica sulla società dell’informazione, e sul suo scenario invasivo di segni, di simboli e di figure, come invece è stato per la poesia visiva delle avanguardie sperimentali degli anni Sessanta e Settanta, esercitata attraverso procedimenti intersemiotici. Si tratta, più sommessamente, del recupero, da vecchie agende, di una calligrafia intima, scomposta, eseguita insieme a degli schizzi più o meno inconsapevoli, a margine di una scrittura volontaria e solo a volte poetica; quasi “faville del maglio” selezionate, ritagliate, e ordinate a posteriori, a distanza di anni, intorno ai numeri stampati dei giorni: una sorta di alfabeto numerico centrato sull’idea di memoria, di passaggio, di traccia, spesso tentato da soluzioni liriche, ma anche concettuali e dissacratorie. Mi rendo conto che è difficile immaginarselo attraverso una descrizione verbale, bisognerebbe vederlo. Ma ho in mente di farne un cd fotografico, visto che l’unica copia non mi appartiene più.
Per quanto riguarda le poesie-oggetto si tratta di tentativi, certamente non inediti, di creare correlazioni tra il ‘testo’ e la ‘cosa’, attraverso la presenza sull’oggetto di elementi linguistici, proponendo così, sia una lettura, a volte molto ‘sui generis’, che una visione, e fornendo al testo una sua connotazione estetica. Le “Tre poesie-azione del poeta egoista”, ‘performance’ che ho realizzato per il Festival “Artincorpo” 2006, sono tre partiture poetiche che contengono, tra l’altro, delle ‘istruzioni’ che le persone chiamate a partecipare alla ‘rappresentazione’ devono eseguire con il proprio corpo, all’interno di una grande pagina bianca, intesa come spazio rituale e allusivo. I corpi si pongono come segni, come caratteri, tradendo dunque una funzione metapoetica, e vanno intesi come vere e proprie allusioni regressive alla poesia, alla passione e allo stupore per essa in quanto forza che, come scrive Quasimodo, porta una cosa dal non essere all’essere. Comunque queste modalità legate alla poesia, che in qualche modo cercano di violarla, o di sfuggirla, rivelano il senso di inadeguatezza che a volte si prova di fronte alla parola da scrivere sulla pagina: inadeguatezza a ‘dire’ della parola pura e semplice, che è spaventevole nella sua assolutezza, e inadeguatezza a ‘dire’ del poeta rispetto a un compito tanto arduo.
GF: Hai ideato e animato una lettura itinerante fra le discariche abusive, “Otto poeti nell’immondizia” (Anzio e Nettuno); e la performance di “Poesia vomitata” contro la costruzione della Turbogas di Aprilia. Potresti raccontarci la storia di questi eventi? Quali sono stati i loro reali significati?
UM: Considero “Otto poeti nell’immondizia” e “Poesie vomitate contro la Turbogas”, eventi che peraltro hanno suscitato una certo eco sui mass-media, anche a livello nazionale, una sorta di poesia civile, che lega le emergenze dei territori alla scrittura poetica. In “Otto poeti nell’immondizia” abbiamo letto presso due discariche abusive, circondati da resti di elettrodomestici, materassi, divani e mobili sfondati, water capovolti, potature, calcinacci, per sottolineare un fenomeno di inciviltà fra i tanti.
In “Poesie vomitate contro la Turbogas” abbiamo letto le poesie dopo averle messe in bocca, insieme a dei liquidi, e vomitate, per esprimere un atto di malessere, ma anche un atto simbolicamente aggressivo, contro la costruzione di una pericolosa centrale termoelettrica a gas. Nella poesia ‘vomitata’ c’è l’idea che le parole, semplicemente pronunciate, o semplicemente scritte, spesso difettino di autenticità: le parole poetiche, e anche e soprattutto le parole politiche; c’è l’idea di un “surplus” di lingua nella nostra vita, che si configura, paradossalmente, come una carenza di lingua, e che ha qualche affinità col “vuoto di lingua” zanzottiano, cioè con la percezione indelebile della perdita e della frantumazione sofferta dalla parola alienata e mercificata, che in quanto degradata può anche essere messa in relazione con altri linguaggi di tipo somatico, assai vicini a quelli dell’isteria, come appunto il vomito. Dopo essere stata vomitata, raccolta e dispiegata, la parola può essere nuovamente pronunciata con qualche speranza di autenticità; e dopo essere stata complice di un gesto simbolicamente aggressivo, rivolto contro un sistema distruttivo, dopo essere stata causa di un malessere, può forse evocare meglio un senso di comunanza, e dunque di civiltà.
GF: “Rapido blè” e “Venti risacche” sono stati pubblicati in tiratura limitata, in cento copie. Posso domandarti perché?
UM: In primo luogo per ragioni economiche, data l’indole come ti dicevo ‘passionale’ della mia editoria. Quando non si cura una struttura che consente di recuperare i costi, anche stampare di meno può sembrare una buona idea. Poi anche perché nella tiratura limitata dei libri c’è l’idea della preziosità, che in qualche modo mi affascina. Ma subisco anche il fascino del ‘falso’, e per questo mi piace giocare con i ‘colophon’. Quindi non credetemi mai del tutto, a volte se dico “cento”, non sempre vuol dire “cento”: qualche copia in più c’è di sicuro. Inoltre ormai la rete mi pare avere un ruolo per la diffusione dei libri che completa ed amplia il supporto cartaceo. Si può spedire individualmente in pdf, come sai, o può capitare di essere ripubblicato, come è successo per le mie “20 risacche”, da un sito come “l’Archivio Barocco”, il bollettino on line dell’Università di Parma diretto da Marzio Pieri, ed arrivare così a più persone competenti senza un’alta tiratura.
GF: Immagina di avere di fronte a te, come già è capitato, un giovane che ti domanda di leggere i suoi versi. Cosa rispondi? E cosa racconti della considerazione della poesia in Italia, e della sua reale circolazione tra i cittadini?
UM: Mi capita a volte che giovani, e meno giovani, mi chiedano di leggere le loro poesie. In genere dimostro un garbo che confina con l’ipocrisia, anche quando ciò che leggo non mi piace. In ogni caso cerco sempre di valorizzare un aspetto, di trovare un appiglio, che mi eviti di essere brutale, perché in qualsiasi modo, anche il più gentile, si dica che una poesia, o un libro di poesie, è del tutto inconsistente, è sempre un modo brutale, per il ‘poeta’ che lo subisce. È un mio limite, lo riconosco, ma è così. E poi credo che la scrittura poetica sia una risorsa personale, un modo per avvicinarsi a sé stessi, e dunque ritengo vada incoraggiata, anche per contribuire a creare un ‘humus’ generale più propizio per la poesia autentica, che a volte poi è solamente più avveduta. Quando poi un poeta mi piace, a un moto di invidia benevola segue il desiderio di contribuire a diffondere la sua poesia, raramente con una pubblicazione (per ovvie ragioni), più spesso invitandolo a leggere nelle letture o nelle rassegne che mi capita di organizzare. La poesia in Italia è tutto e il contrario di tutto: è viva, ma a volte si ha il sospetto che lo sia perché graziata da una critica priva di responsabilità; sembra non avere alcuna rilevanza sulla cultura e sulla società, eppure in molti continuano a riconoscergli un valore etico, uno sguardo che vede lontano; si dibatte fra gli estremi di un’illeggibilità prestabilita e di un piglio ancora ottocentesco; è una sorta di occasione per l’esercizio di sgarbi subdoli, o di salamelecchi, fra poeti, ma sa andare oltre il presunto ‘pedigree’, e sa toccare veramente le corde più intime. Insomma è un caos, ma in parte va anche bene così, perché lo avverto come un caos propizio.
GF: Infine... cosa significa Nettuno nella tua letteratura? Raccontaci del legame con la tua città.
UM: A questo proposito sono abbastanza in disaccordo con Lawrence Ferlinghetti, che in un libretto intitolato “Cos’è la poesia”, dice: “evitate la provincia, mirate all’universo”. Penso, un po’ positivisticamente, che i luoghi segnino le inclinazione delle persone, e che i piccoli posti abbiano la stessa dignità dei grandi, e possano allo stesso modo rappresentare una risorsa. Crescere in una piccola città di mare significa anche, banalmente, e tuttavia con qualche verità, scoprire il paesaggio come inevitabile ricerca di sé stessi, come luogo di sospensione, e come prova.
La prospettiva laterale, quasi difensiva, che tu stesso hai notato in “Rapido blé”, proviene, forse, anche dalla mia città, che è una città diversa da altre, a cui una storia fatta di continue e devastanti incursioni dal mare, dai saraceni agli anglo-americani, ha procurato un ripiegamento nell’entroterra, una malia straziante per l’orizzonte marino, ma anche una paura che induce all’esilio. Ho vissuto la mia città come luogo di protezione e di riparo, e al tempo stesso come luogo di introspezione, anche a causa di quell’aria stagnante tipica della provincia, a cui il desiderio di fuga, di attraversamento, tanto più toccante quanto più inattuato, è un immancabile corollario. Un luogo dove sto bene, dove però mi capita a volte di avvertire, più forte che altrove, il cuore sconfortante della realtà, che, proprio là dove si è nati e cresciuti, è più facile percepire all’ennesima potenza. Con le controindicazioni del caso, se è vero, come è vero, ciò che dice Eliot, e cioè che “l’essere umano non può sopportare un eccesso di realtà”.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Ugo Magnanti (Nettuno, 1964), poeta ed editore italiano.
Ugo Magnanti, “20 risacche”, Edizioni Acume, Anzio 2007. L’opera – dedicata alla memoria di Giovambattista Guarnieri – ha avuto una tiratura non venale di cento esemplari.
Gianfranco Franchi, settembre 2007
Prima pubblicazione: Lankelot