2010
PASOLINI E I SUOI ANNI DI MONTEVERDE.
MONTEVERDE NUOVO, MONTEVERDE VECCHIO.
C'è una storia che nessuno ha raccontato ancora, quella delle tre targhe di Pier Paolo Pasolini nel quartiere di Monteverde, tra Vecchio e Nuovo. È una storia che spiega bene quanto complessa e contraddittoria sia stata la fortuna dell'artista, e quante volte la sua eredità sia stata rifiutata...
“E ora rincaso, ricco di quegli anni / così nuovi che non avrei mai pensato / di saperli vecchi in un'anima / a essa lontana, come a ogni passato / Salgo i viali del Gianicolo, fermo / da un bivio liberty, a un largo alberato / a un troncone di mura - ormai al termine / della città, sull'ondulata pianura / che si apre sul mare / […] Ecco Villa Pamphili, e nel lume / che tranquillo riverbera / sui nuovi muri, la via dove abito / Presso la mia casa, su un'erba / ridotta a un'oscura bava, / una traccia sulle voragini scavate / di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia / di distruzione – rampa contro radi palazzi / e pezzi di cielo, inanimata, una scavatrice... / […] Mi spoglio in una delle mille stanze / dove a via Fonteiana si dorme. [...]” (“Pianto della Scavatrice”, III)
“Ed ecco la mia casa nella luce marina / di via Fonteiana in cuore alla mattina: / la mia tana, indifesa, cieca di speranza, / dove bruciare l'ultima remora che mi avanza” (“Récit”).
Tra 1953 e 1964, Pasolini visse a Monteverde, prima in via Fonteiana, 86 quindi in via Carini, 45, vicino di casa di Attilio Bertolucci e dei suoi figli, Bernardo e Giuseppe. Via Fonteiana si trova a una manciata di passi di distanza da Donna Olimpia, cuore popolare del quartiere, salutato dai cittadini della zona come “Monteverde Nuovo”. Via Carini si trova nel centro del quartiere, a cento passi dagli eleganti villini di via Poerio e di via Alberto Mario, puro “Monteverde Vecchio”, per gli abitanti e non solo. In via Carini, 45 oggi c'è una targa, luminosa e sorridente, che ricorda gli anni in cui il poeta abitò in quella casa. I monteverdini sono abituati, passando da quelle parti, a indicarla agli amici che vengono da fuori, con un pizzico di orgoglio. In via Fonteiana, 86 la targa c'è, ma non per tutti. Bisogna suonare al citofono di uno dei condomini, chiedere graziosamente di poter entrare, e subito a destra, nell'atrio, visibile soltanto agli abitanti del palazzo, ecco il prezioso ricordo. Che cosa significa? Significa che per lungo tempo le due anime di questo quartiere, aristocratico e popolare, sono state apertamente in contrasto: non tutti volevano rivendicare la memoria di Pasolini. È un fenomeno che, soltanto adesso, sembra poter terminare.
Le ragioni sono difficili da spiegare. Soltanto qualche anno fa, è apparsa, in via Abate Ugone, al termine di via Fonteiana, a un sospiro di distanza da via di Donna Olimpia, una targa commemorativa esposta al pubblico. Era il trentennale della sua tragica morte, 15 ottobre 2005. Fino a quel momento c'era qualcuno che s'era opposto: che prometteva di staccarla, che non aveva nessuna intenzione di rispettarla. Da queste parti si diceva fossero i “ragazzi di vita” che aveva raccontato, o i loro famigliari, o i loro figli: qualcuno si vergognava, qualcuno s'era sentito diffamato, qualcuno non aveva dimenticato che il poeta non era stato sempre lirico, diciamo così, nei confronti dei ragazzini. E giù cattiverie, più o meno credibili. A difenderlo a tutto spiano c'era uno dei bambini descritti nel suo primo romanzo, Pecetto, all'epoca dei fatti un pischello di pochi anni: oggi ha una bottega a via Ozanam, scrive poesie e dipinge, spesso sogna il poeta – e un po' gli somiglia, anche, e questo sì che è strano. Ma tanti altri s'opponevano all'affissione della targa. Non si trattava di una questione politica, badate bene. Si trattava di qualcosa che non si doveva dire ad alta voce, si poteva soltanto dire a mezza bocca. E non certo ai giornalisti.
Monteverde Vecchio non ha avuto remore: via Carini saluta Pasolini, e non ancora la famiglia Bertolucci. Figuriamoci. Duecentometri più in basso, via Regnoli saluta il poeta Caproni, vissuto per tanti anni in una modesta dimora borghese, maestro di tanti ragazzini. Via Fonteiana, invece, che pure il poeta aveva cantato con tanto amore – così accecato da aver inventato una “luce marina” che da queste parti, ammettiamolo, non abbiamo visto mai, e nemmeno sospettavamo esistesse – non ha rivendicato né accettato pubblicamente la sua eredità. Perché via Fonteiana non è del tutto Monteverde Vecchio, ed è quasi Monteverde Nuovo: sente d'appartenere, per un vago snobismo borghese, alla dimensione provinciale ma elitaria del quartiere degli artisti e dei grandi professionisti, un tempo periferia, ma sa che il suo sangue e la sua natura sono inclinati nella dimensione popolana delle case costruite sotto regime e popolate sotto Italia repubblicana, spesso abitate da cittadini sfrattati da Trastevere o dal centro. E così, nel 2010, la via Fonteiana è rimasta l'unica a non benedire il poeta con un ricordo pubblico. Ha preferito murarlo dentro un palazzo anonimo, segreto allo sguardo dei viandanti. Io che abito qui so bene come entrare in quel palazzo, ma mi limito a mostrarlo da fuori agli amici che vengono a trovarmi da altri quartieri, o altre città. Questione di pudore. Oppure, semplicemente, poca voglia di spiegare. Almeno: di spiegare certe cose.
Quando Pier Paolo Pasolini e la sua famiglia sbarcarono a Monteverde, nel 1953, la fama di Donna Olimpia era ancora decisamente sinistra, e larga parte del quartiere era in costruzione. I taxi – vuole la leggenda – non andavano fin sotto le case popolari, si fermavano ben distanti e facevano scendere i passeggeri. C'era una forte rivalità tra i ragazzi di Monteverde e quelli della Magliana. I più vecchi, ancora adesso, si ricordano leggendarie sassaiole, e parecchi occhi neri. Altri tempi, altra Roma, altri romani.
Pasolini descrive, nei suoi primi due romanzi e in tante sue poesie, spaccati e squarci architettonici e sociali del quartiere che oggi non più esistono: da tempo nulla è più in costruzione, da queste parti, da tempo Monteverde ha cessato d'essere infrequentabile (il Nuovo è diventato come il Vecchio, da questo punto di vista: ci siamo, diciamo così, assimilati, in un certo senso, senza tuttavia snaturarci. Curioso), da tempo sono sparite le industrie che il poeta delle “Ceneri di Gramsci” aveva descritto. E così, ritrovarci a leggere passi come quello che stiamo per apprezzare, è un'esperienza dal valore ormai storico-documentaristico, è una fascinazione tutta letteraria: “Così passavano i pomeriggi a far niente, a Donna Olimpia, sul Monte di Casadio, con gli altri ragazzi che giocavano nella piccola gobba ingiallita al sole, e più tardi con le donne che venivano a distenderci i panni sull'erba bruciata. Oppure andavano a giocare a pallone lì sullo spiazzo tra i Grattacieli e il Monte di Splendore, tra centinaia di maschi che giocavano sui cortiletti invasi dal sole, sui prati secchi, per via Ozanam o via Donna Olimpia, davanti alle scuole elementari Franceschi piene di sfollati e di sfrattati”. Erano gli anni Cinquanta. La scuola Franceschi, dopo un drammatico crollo, è stata ricostruita e dà ancora soddisfazione e consolazione e sicurezza a tante famiglie. Via Ozanam e via Donna Olimpia stanno sempre lì, soffocate dai loro palazzoni – da queste parti li chiamiamo “grattacieli”, perché sebbene non siano così alti da meritare quel nome sono mostruosamente più alti rispetto alle case di Monteverde Vecchio. Ma non c'è più nessuno spazio per giocare a pallone, se non in qualche oratorio o nei parchi. Dimenticate i “cortiletti invasi dal sole” e i “prati secchi”. Dimenticate anche i ragazzi raccontati nelle prime pagine di “Ragazzi di vita”. Questo quartiere è cambiato. È cresciuto, da tanti punti di vista. E ha saputo serbare ricordi e rancori con la stessa eccezionale intensità, sino a pochissimi anni fa.
Cosa è rimasto intatto? Scendete per via Fonteiana, dopo aver pellegrinato di fronte la sua vecchia casa, e andate verso Donna Olimpia. Sprofondate nel cuore di quel territorio. Una volta potevate incontrare qualcosa di simile a questo, da quelle parti: “Quattro palazzoni tutti collegati tra loro, in modo che le file e le diagonali di finestra non avevano interruzioni e si allineavano tutt'intorno per centinaia e centinaia di metri in lungo e in largo, e così le trombe delle scale, che si riconoscevano all'esterno per le enorme file verticali di finestre rettangolari: mentre sotto, tra arcate, sottopassaggi, portichetti, in stile Novecento fascista, si stendevano sei o sette cortiletti interni, di vecchia terra battuta, con i resti di quelle che avrebbero un tempo dovuto essere aiuole, tutti cosparsi di stracci e carte, in fondo all'imbuto delle pareti che si alzavano fino alla luna” - adesso, semplicemente, palazzoni, negozi e negozietti, figli del popolo un po' imborghesiti e tanta piccola borghesia. Un bel dialetto verace romanesco, qualche sguardo da parte dei vecchi borgatari per capire al volo se siete o no di quelle parti, e tanto orgoglio popolare. Verace.
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“Com'era nuovo nel sole Monteverde Vecchio! / Con la mano, ferito, mi facevo specchio / per guardare intorno viali e strade in salita / vivi di gente nuova nella sua vecchia vita. / Giunsi nella piazza, accaldato e tremante / ché gelo e sole insieme il quartiere accecante / sbiancavano con muta ed estasiata noia. / Ricco era il quartiere, ma popolana gioia / ne invadeva interrati ed attici con voci / vaghe ma violente, canti lieti e feroci / di garzoni, di serve e d'operai perduti / su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti” (“Récit”).
Abitare Monteverde, oggi, soprattutto Monteverde Vecchio, è una scelta a volte elitaria, tendenzialmente snob. Si sceglie un quartiere che non è centrale, ma non è del tutto periferico. Si abita a cinque minuti di macchina da Trastevere, a mezzora a piedi dal centro. Si abita in piccoli condomini o in villette, i negozi sono sempre a portata di mano, non manca niente. Non c'è traffico, e il parcheggio, almeno dalle parti del vero “vecchio”, è facile e gratuito. Chi entrasse nel quartiere per la prima volta, visitando certe stradine come via Valla, o via Silvagni, o via Mario, sarebbe decisamente stupito dal saperle “monteverdine” come quelle raccontate da Pasolini. Grondano benessere e ricercatezza. Ma è a Monteverde Nuovo che dovete andare, puntando via Fonteiana e di lì Donna Olimpia, misurando i passi come Lo Cascio nel film di Giordana, per provare a immaginare cosa ha vissuto e conosciuto l'artista friulano con la sua famiglia, quando ha scelto di vivere in una delle periferie (allora!) più estreme di Roma, fianco a fianco di chi lottava per sopravvivere con decoro e dignità, nell'Italia massacrata dal disastro del fascismo e dalla guerra. Provate a entrare nei giardini delle case popolari, e contate le mille e mille stanze in cui si dorme, da quelle parti – ben più delle mille di via Fonteiana. C'è forse rimasto, a ben guardare, qualcosa di pasoliniano, adesso: quella “luce marina” è nello sguardo di certi abitanti. Dei contrasti di cui è intriso il nostro quartiere ci siamo nutriti, e in quei contrasti, culturali, sociali ed estetici, siamo composti. E siamo comunque e sempre riconoscenti al poeta che seppe nominarli quando vagivano, seppe cantarli e farne arte, senza nascondere le nostre macchie, senza sporcare le nostre vergogne, senza enfatizzare le nostre bellezze. Semplicemente, lui ci incarnò. E seppe eternarci.
Gianfranco Franchi, novembre 2010.
Prima pubblicazione: Turismo Culturale