Saggiatore
2014
9788842820253
TRIEST, URBS FIDELISSIMA
“L’Adriatico è azzurro e silenzioso, non c’è un alito di vento. Oltre la baia, si erge un piccolo castello bianco, le colline intorno sono scabre. Il sole risplende, senza essere radioso. Un rimorchiatore isolato attraversa il porto; un treno sferraglia chissà dove; un vaporetto sbuffa fumo; in lontananza, suona un’orchestrina e qualcuno fischietta un’aria di Puccini (o sono io?).
I palazzi allineati lungo le rive, gravi e pretenziosi, ornati di guglie ed elementi simbolici, paiono deserti, quasi fosse l’ora della siesta e sul bordo della banchina sta seduto un pescatore solitario, ingobbito e immobile, davanti a un galleggiante che non accenna a muoversi. Alcune bandiere pendono svogliate. Un tram attende passeggeri”. (Prologo: passa un angelo, p. 12).
CENNI DI STORIA
Trieste nacque come insediamento degli Illiri, oscura popolazione indoceltica. Quindi, fu colonia romana, col nome di Tergeste. La città fu oggetto di razzie e sporadiche occupazioni da parte di Venezia, fin quando i governanti non domandarono la protezione degli Absburgo. Era il 1382.
Trieste divenne il principale porto dell’impero, l’elettivo approdo sul mare: nel 1719, Carlo VI proclama il Porto Franco. Durante i regni di sei monarchi, da Carlo VI (1711) a Franz Joseph (morto nel 1916), un villaggio di pescatori di poche migliaia di anime divenne uno dei più grandi e moderni porti internazionali, contando su duecentoventimila abitanti e godendo d’una scintillante vita commerciale e culturale. Italiana, di lingua, era la maggioranza della popolazione. Ma il senso d’appartenenza all’Italia non era affatto condiviso. 1866. La Marina Austriaca massacra gli italiani a Lissa. Solenne celebrazione della vittoria a Trieste, capoluogo dell’Österreichisches Künstenland, unica provincia costiera dell’impero, reichsunmittelbare Stadt fin dal 1850. In riconoscimento della lealtà dimostrata durante i moti nazionalisti degli anni Quaranta, la città era stata battezzata urbs fidelissima.
Nonostante tre brevi periodi d’occupazione napoleonica, Trieste era rimasta città fedele agli Absburgo, emporio e gioiello d’una civiltà irripetibile. Al crollo dell’impero, annessa per ragioni fondamentalmente geografiche all’Italia, si vede privata dell’entroterra: è il principio della decadenza della città.
La cultura fascista impone il mito dell'origine romana di Trieste, mistificando secoli di storia e sforzandosi di sradicare le radici “atipiche” della città: un luogo che Morris sente come incarnazione dell’utopia, aliena alle nazioni e ai nazionalismi, ibrido di razze, lingue, popoli, culture. Tre nomi: Trieste, Triest, Trst. Un’idea, nessun colore dominante.
Per i fascisti, Trieste era ed è esclusivamente italiana: nel 1919, il governo chiude le scuole slovene, ed avvia un’opera di smantellamento etnico che – in un certo senso – altro non è che il preludio agli orrori delle foibe, e delle violenze dei Balcani negli anni Novanta. È uno smantellamento culturale, in prima battuta: non soltanto per traduzione di cognomi e chiusura di scuole e centri di ritrovo, ma per damnatio memoriae di storie, cultura e verità.
Perché viva una, e una soltanto, delle tante anime della città: quella italiana. E le altre siano ghigliottinate. In seconda battuta, infatti, lo smantellamento fu anche fisico: con l’allestimento di campi di concentramento sia in territorio italiano (Gonars) che in territorio occupato sloveno in cui furono rinchiusi migliaia di cittadini sloveni rei solo di non essere italiani.
Il caso più grottesco ed emblematico dello spirito della c.d. italianità di Trieste è probabilmente quello del disertore dalmata Guglielmo Öberdank, ancora oggi noto in Italia come “Oberdan”. Esule in Italia per evitare di prestare servizio militare, tornò a Trieste per attentare alla vita dell’imperatore. Arrestato, processato e impiccato, gridò “Viva l’Italia! Trieste Libera!”.
Agli occhi degli irredentisti, fu eroe. La piazza della Caserma, oggi “piazza Oberdan”, ospita oggi un Museo del Risorgimento, che conserva la cella dove passò l'attentatore passò le ultime ore di vita, e una statua del “martire”: il disertore austriaco è diventato un simbolo.
Nel 1943, i Nazisti occuparono la città. Centinaia di ebrei fuggirono per la Palestina (sin dagli anni ’30, Trieste era divenuta “Porta di Sion”), centinaia furono catturati e condannati a morte. L’antica e gloriosa comunità ebraica della città conobbe torture, massacro e martirio: nel primo e unico campo di sterminio italiano, San Sabba. Contesa tra i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, vagheggiata da Tito e salutata dalle forze anglosassoni come ultimo avamposto dell’Occidente, sorta di vedetta democratica sul balcone del comunismo (diversamente, almeno a parole, da quanto affermava Chateaubriand nel 1806: “L’ultimo respiro della civiltà aleggia su questa costa dove ha inizio la barbarie”), Trieste fu Territorio Libero per qualche anno: nel 1954, tornò italiana; i dintorni divennero parte integrante della Jugoslavia titina.
MORRIS E TRIESTE
La scrittrice gallese crede che Trieste non sia una città-icona – è un’idea che vive nella coscienza, e irregolarmente appare: s’incarna, leggera e malinconica, quasi fosse il passaggio d’un angelo. Il sentimento princeps è la sehnsucht, la nostalgia: un gallese ha un nome per questo stato d’animo, hiraeth. Nostalgia della potenza scomparsa, fascino irresistibile della grandezza perduta, desiderio di quel che non può tornare più: l’impero absburgico, e la gloria culturale e commerciale.
Morris descrive con dolcezza e passione le segrete anime della città, e i suoi vicoli polverosi, e i riflessi del perduto tempo: il delicato disordine del Borgo Medievale, l’eleganza e l’austerità dell’architettura mitteleuropea, i tornanti di Opicina che rivelano, poco a poco, the meaning of nowhere: terra isolata, splendida e sfortunata, maledetta dalla menzogna del nazionalismo, e orgogliosamente aliena alle nazioni.
Trieste è il simbolo del nonsenso della nazionalità. Morris è osservatrice sensibile e cronista impeccabile: nel testo, narra dei Caffè storici, e del migliore caffè del mondo; delle sorti degli straordinari letterati del Novecento triestino, da Slataper a Svevo a Joyce (che qui scrisse “Dedalus”, “Ritratto dell’artista da giovane”, parte dei “Dubliners”; e qui ideò “Ulisse”), fino – ovviamente – al divo Magris; delle osmize del Carso, della mitologia della Bora, dei misteriosi mori Micheze e Jacheze sulla torre dell’orologio del Municipio, in Piazza Grande (oggi Piazza Unità d’Italia); e ovviamente s’emoziona descrivendo il castello di Miramar, sublime ricordo dell’amore infelice di Massimiliano (comandante della flotta di stanza a Trieste) e Carlotta.
Perché quel castello è il simbolo d’un sogno che forse s’è sospeso, e attende d’esser rivendicato: perché tornino i giorni del più grande porto del Mediterraneo, un tempo Kaiserlich und Königlich (imperiale e regio): in futuro, indipendente, e franco. E finalmente libero dal morbo di questa città: la nazione della decadenza di Trieste, l’Italia.
“La K u K, comunque, non ha mai smesso di esercitare il suo incantesimo su Trieste. Carlo VI è pur sempre l’imperioso sovrano in piedi su una colonna in piazza Unità. Leopoldo I regge la sfera e lo scettro in posizione dominante in piazza della Borsa mentre l’imperatrice Elisabetta, detta Sissi, la consorte ribelle di Francesco Giuseppe, siede all’ombra degli alberi, di fronte alla stazione ferroviaria” (p. 57)
Il libro è strutturato in un prologo (“Passa un angelo”), sedici capitoli e un epilogo (“Da un capo all’altro della mia sepoltura”). Ogni capitolo è introdotto da una fotografia dei segreti e delle anime della città. Le foto sono di proprietà dei Civici musei di storia ed arte di Trieste e della Biblioteca Civica “Attilio Hortis”.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jan Morris, già James (1926-2020), saggista, giornalista e romanziera gallese. Ha scritto articoli e saggi su Venezia, Oxford, Sydney, Hong Kong, Spagna e Galles e una trilogia sull’impero britannico (Pax Britannica, 1968 – 1982). WIKI en: qui.
Jan Morris, “Trieste o del nessun luogo”, Il Saggiatore, Milano 2003. Traduzione di Piero Budinich.
Prima edizione: “Trieste and the meaning of nowhere”, 2001.
Gianfranco Franchi, maggio del 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Dedicata a Patrick Karlsen, Pontefice Massimo.
Probabilmente il miglior saggio di James Morris, poi Jan Morris, scrittore gallese, leale servitore dell’UK.