Palace of the End

Palace of the End Book Cover Palace of the End
Judith Thompson
Neo Edizioni
2009
9788896176023

La bellezza sa essere brutale. Sa essere brutale e magnifica quando s'accompagna alla denuncia. A una denuncia civile, a una denuncia politica, a una denuncia libertaria. La bellezza diventa brutale quando il linguaggio scende a patti con la verità: e allora si piega al male, per demistificare le menzogne della propaganda, e la distruzione della giustizia, e dell'innocenza di un popolo. “Palace of The End” di Judith Thompson (Neo Edizioni, pagine 148, euro 11) è il libro fenomenale e fondamentale d'una drammaturga canadese, popolare in tutto il mondo ma non ancora in Italia, che ha avuto la suprema onestà e il grande coraggio di trasfigurare, in letteratura, la sciagurata sorte del popolo iracheno, martire prima del regime disumano e liberticida di Saddam, poi della bugiarda, caotica e vigliacca aggressione angloamericana. La Thompson sceglie tre personaggi differenti, nei suoi tre monologhi sull'Iraq. Sono tutti volti noti: i tre monologhi sono fondati su notizie di cronaca. Nel primo è protagonista la soldatessa yankee Lynndie England, anima dei massacri nelle segrete di Abu Ghraib; nel secondo è il biologo gallese David Kelly, ispettore del Ministero della Difesa inglese, già attivo in Iraq, suicida o suicidato dai servizi segreti; nel terzo è Nerjas al-Saffarh, rivoluzionaria irachena costretta a osservare il figlio torturato dalla polizia di Saddam, negli anni Settanta, infine uccisa dai bombardamenti Alleati. Poco tempo fa.

Nel primo monologo, “Le Mie Piramidi”, Lynndie England ci racconta quel che è accaduto nelle galere dei liberatori americani: i prigionieri iracheni erano nudi, e lei, sensibilità e fantasia macabra da coreografa, ha pensato di fare una piramide di gente nuda. Non si stava divertendo: si stava preoccupando di abbassare il morale dei nemici. E così ha fatto con chi le disobbediva: un bel guinzaglio al collo e alè. E magari anche abbaiare. Perché quelli non erano esseri umani, nella sua pazzia: erano mostri. Erano prigionieri di guerra, e i prigionieri di quella guerra dovevano essere mostri. E dovevano restare a guardare mentre Lynddie faceva sesso con gli altri soldati, filmata a dovere. E dovevano mangiare merda, e poi baciarsi tra loro. Lynndie si studia parte dei seicentomila documenti sul web che riferiscono delle sue imprese. E si prende gioco di chi la critica: “froci cacasotto”, “pacifisti”, “femministe”. Per lei le femministe sono invertebrate. Sente di non aver fatto niente di sbagliato, perché ha giurato fedeltà alla sua bandiera. E qualcuno, molto in alto, le ha dato assicurazioni, al suo ritorno: “riceveremo onorificenze militari grazie al lavoro fatto per l'intelligence e persino delle medaglie perché ci stiamo accollando tutte le colpe”. E allora pensa di andarsene esule in Canada, e di ritornare quando sarà il momento, più in là: quando sarà chiamata eroina. Perché lei è l'incarnazione dell'aquila americana. Un'aquila cieca ai diritti umani, e al rispetto del nemico.

Nel secondo monologo, “Harrowdown Hill”, il timido scienziato David Kelly, quell'ispettore delle armi che s'è messo nei guai perché ha spifferato tutto per bene alla BBC, ripetendo che Blair era un bugiardo e che non c'era nessuna arma di distruzione di massa, ci racconta che ha deciso di nascondersi su quella collina, consapevole che sarà ritrovato morto. Qualcuno, sussurra, penserà che lui l'ha fatta finita perché era depresso, esausto, stanco. Altri si convinceranno, grazie a una canzone dei Radiohead, che è stato suicidato. Stiano come stiano le cose, lui è un morto contro centinaia di migliaia di morti iracheni. Non fa testo, ma forse fa letteratura. E si ammazza perché è distrutto dalle menzogne della propaganda della sua nazione: si ammazza perché prima di rivelarle le ha sopportate, le ha sostenute. “Noi tutti – giura – sapevamo che il casus belli era una bugia. Cosa potevamo fare? Non avevamo nessun potere. Scuotevamo le teste e scappavamo via, piccoli vigliacchi. Non parlavamo. Avevamo fatto un voto di segretezza. Se non volevamo perdere il lavoro dovevamo tenere le bocche chiuse. Così ho nascosto la testa nella sabbia”. Poco prima di morire, Kelly pensa al suo amico libraio iracheno, massacrato senza ragione dagli Alleati, e a sua figlia, stuprata e uccisa. Poco prima di morire, ci racconta che è stato questo fatto a dargli coraggio, a spingerlo a parlare. Mentre muore, David Kelly sogna di reincarnarsi in un picchio, fare un sacco di rumore e volare ovunque può. Perché ha sempre amato i sogni in cui volava. Viene da piangere.

Nel terzo monologo, “Strumenti della Bramosia”, Nerjas – il suo nome significa “giunchiglia”, in arabo: un fiore – ci racconta la sua storia. Non vuole compagnia, vuole riavere ciò che ha perduto. Vuole che noi sappiamo che nella Moschea Umm Al-Maarik, a Baghdad, c'era un Corano scritto col sangue di Saddam Hussein. Il Libro Sacro scritto col sangue di Satana: che paradosso terribile. E lei, che era diventata religiosa la prima volta che aveva visto suo figlio, perché nel suo bambino aveva visto Allah, non poteva tollerare questo affronto. Perché vivere sotto Saddam era un incubo. Intellettuali e attivisti erano controllati e minacciati: riuniti sotto l'egida d'un socialismo ultralibertario, fronteggiavano il terrore della polizia segreta del partito Baath: gli agenti di quella polizia erano riuniti nella “Jihaz Haneen”, che significa “Strumento della Bramosia”. Nell'atroce esercizio del suo potere, la polizia di Saddam torturava: bastonava, rompeva le ossa, levava le unghie, debilitava. E nel caso di Nerjas, aveva torturato suo figlio davanti a lei. E poi l'avevano violentata più volte davanti a lui. Lei era incinta. Otto mesi. E poi avevano lasciato crepare di polmonite suo figlio. Ma non era abbastanza, per la povera donna. La Liberazione angloamericana s'era rivelata un inferno: “Quelli che dicono di essere venuti a salvarci, sono venuti a distruggerci”. Non avevano avuto pietà nemmeno delle palme, distrutte per ragioni di sicurezza, dalle parti dell'aeroporto. Figurarsi dei civili: “danni collaterali”. Uno dei danni collaterali è la morte di Nerjas. L'altro è la morte della speranza. Nerjas diventa un fantasma, assieme a migliaia d'altri cittadini, per vegliare sul suo popolo, nonostante tutto. Ma è un fantasma che sogna che un giorno finirà tutto; e quando sarà la pace, suo figlio tornerà a cercarla e assieme voleranno verso le cime dei Nakhla, negli occhi di Allah. And Death Shall Have No Dominion.

Quando “Palace of the” End volge al termine nella nostra lingua italiana, nell'elegante edizione Neo – piccolo editore abruzzese, giovanissimo, intraprendente e determinato – possiamo apprezzare questi tre canti di morte e di amore nella lingua originale, quella inglese. Non capita spesso, e interiorizzare tutta questa umanità e tutta questa sofferenza in due lingue diverse sembra volerci guidare a considerarle universali. Il popolo arabo, come insegnava già Piovene nel suo “Processo dell'Islam” alla civiltà occidentale (1957), è felice di accogliere noi occidentali: ma non da conquistatori, non da colonizzatori. Le nostre civiltà devono tornare a dialogare democraticamente e onestamente, considerando il Mediterraneo patria comune: Islam e Cristianesimo non contrastano, sono religioni sorelle. È stata la politica a stabilire distanze. Distanze che dobbiamo colmare: rivendicando libertà e giustizia per i popoli arabi, e denunciando quel che hanno sofferto e stanno soffrendo nel corso d'una guerra ingiusta, amorale, bugiarda. Per mano occidentale. Armarsi di questo libro, e delle parole della Thompson, è un buon passo per ricordarsi da che parte stare.

BREVI NOTE

Judith Thompson (Montreal, 1954), drammaturga e scrittrice canadese. Insegna Teatro e Arte Drammatica presso l'Università di Guelph, in Ontario.

Judith Thompson, “Palace of the End”, Neo, Castel di Sangro 2009. Traduzione di Raffaella Antonelli. Prefazione di Maria Anita Stefanelli. Illustrazioni di Ricky Butler. Include una intelligente nota della traduttrice. In appendice, testo originale in lingua inglese.

Prima edizione: “Palace of the End", Canada, 2007.

Approfondimento in rete: WIKI en

Gianfranco Franchi, maggio 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Prima pubblicazione cartacea dell'articolo: Il Secolo d'Italia, 14 maggio 2010, pagine 1, 8, 9. © Il Secolo d'Italia. A ruota, Lankelot.

Tre monologhi sull’Iraq.