Mondadori
2011
9788845268397
Terzo libro di narrativa di Steinbeck, il doloroso, profondo e spirituale “To a God Unknown” (in IT “Al Dio sconosciuto”, traduttore d'eccezione Eugenio Montale), secondo suo romanzo post “Cup of Gold” del 1929 (“La santa rossa”), apparve nel 1933. È il grande libro della mistica della terra; dei contadini pionieri dell'Ovest, e del loro legame d'appartenenza assoluta, carnale e spirituale, alla terra. È il libro del sacrificio delle loro vite, consacrate alla bonifica di quei terreni grandissimi e selvaggi, e della loro fede nell'avvenire, nel senso della loro impresa, nel lavoro. È un libro universale, sento di dire, e non americano; è la storia di tutti quegli uomini che nei millenni hanno dedicato le loro esistenze alla terra, combattendo perché non mancasse mai da mangiare per nessun membro del clan, e perché Dio – un dio più grande di ogni cosa – sostenesse e guidasse il loro destino, e i loro sforzi. È un libro in grado di attraversare il tempo: è un classico non riconosciuto in quanto tale, forse perché la nostra società è tornata a essere eccezionalmente distante dalla terra. Un giorno, quando le cose torneranno a essere sensate e naturali, capiremo quanto fondamentale può diventare, simbolicamente, un romanzo come questo.
Tutto ha inizio dalle parti di Pittsford, nella fattoria degli Wayne. La terra non dà più abbastanza frutti per mantenere tutta la famiglia. Joseph Wayne è il terzogenito: il figlio prediletto. Il padre sogna che raccolga la sua eredità. Joseph crede in qualcosa di diverso. A Ovest, da tre anni, regalano la terra in cambio di un anno di residenza e della costruzione d'una casa nuova. Ricevuta la benedizione paterna, eccolo in California, a fiutare la valle che ha scelto. A sentirla, a respirarla. È tutto così bello che sembra un'allucinazione. Joseph guarda e sente pietà per l'erba e per i fiori: tutto gli appartiene, deve averne cura. Vuole che tutto si moltiplichi, vuole che la terra brulichi di vita. Un giorno deve avere una compagna, per darle tanti bambini. La terra è come una donna...
“C'era una strana femminilità nelle fronde e nei ramoscelli allacciati, nella lunga grotta verde che il fiume tagliava tra gli alberi e nel lucente sottobosco. Le infinite navate verdi, i recessi e le alcove parevano avere un significato oscuro e promettente come simboli di un'antica religione” (p. 17)
…e come di una donna ne parla il padre, poco prima di morire, mentre delira pensando a quale terra avrà scelto il figlio. Wayne riceve una lettera dai fratelli e viene informato di tutto. Da quel momento, sente che suo padre sia nei suoi alberi: che sia uno dei suoi alberi, in particolare. Che si sia incarnato in quell'albero, simbolicamente, per restare al suo fianco e guidarlo. Decide di chiamare i suoi fratelli; che vengano con le famiglie, c'è terra per tutti, c'è da mangiare per tutti. Così accade.
Thomas è il primogenito. Misantropo, è a suo agio soltanto con gli animali: non capisce gli esseri umani e nemmeno si fida di loro. Teme i sentimenti come gli animali temono i tuoni. È un allevatore, un uomo semplice e silenzioso. Sua moglie, Rama, cucina, cuce e fa figli; tutta la sua vita è la sua famiglia. Ma adora Joseph. Sente che in lui vive qualcosa di eterno. C'è un passo memorabile in cui dice alla futura moglie di Joseph, la maestra di scuola Elisabeth, che lui non è un uomo, a meno che non sia tutti gli uomini in uno: “La forza, la resistenza, il lungo e incespicante pensiero di tutti gli uomini e anche tutta la gioia e la sofferenza che in essi si cancellano a vicenda senza uscirne. È il ricettacolo d'ogni anima umana, e più ancora è un simbolo dell'anima della terra” (p. 93). Ai suoi occhi, Joseph è l'incarnazione del sogno: non può morire, e non può fallire, perché lui è lo spirito di tutti gli uomini, lui è lo spirito della terra. Sognerà di avere un figlio da lui. Cercherà di averlo.
Burton è il secondogenito. Religioso e poco pratico, crede che la sofferenza sia un dono del Signore: ha “la resistenza possente dell'ammalato cronico” (p. 37). In ogni cosa vede epifanie del demonio o di Dio: non è religioso né mistico, è un fanatico: un ossesso, malato dell'idea del peccato, e del sovrumano. La sua presenza nel romanzo serve soltanto a sporcare il misticismo perfetto di Joseph. A mostrare quanto male possono fare le religioni quando sono fraintese, quando vengono, fatalmente, “umanizzate”.
Il fratello minore è Benjamin, dissoluto e irresponsabile: alcolista, rissoso, stupido. Apparirà e svanirà dalla narrazione: accoltellato, mentre stava rubando, dal primo collaboratore di Joseph, un indio che diceva d'essere spagnolo, Juanito, e che conosceva il sacro segreto di quella terra. Sapeva a chi rivelarlo. Sapeva perché rivelarlo. Juanito tornerà, simbolicamente, quando sarà il momento. C'è una terribile siccità, e la terra soffre. Burton, andandosene via, ha ferito a morte l'albero sacro a Joseph. Joseph sa che il dio sconosciuto domanda un tributo: un tributo che restituisca la vita e l'acqua alla sua terra, perché possa vivere, perché possa resuscitare dalla morte una volta ancora. Il prete non vuole domandare a Dio la pioggia: serve un altro sentiero, diverso da quello cristiano. Il sangue di Joseph, misticamente, chiamerà a sé la pioggia. Questo accade, e dolorosamente chiude l'opera.
Una favola nera di terra, spiritualità e sacrificio. Bellissima.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
John Steinbeck (Salinas, California, 27 febbraio 1902 – New York, 20 dicembre 1968), narratore e saggista americano, premio Nobel 1962. Fu pescatore e sterratore, giornalista e corrispondente di guerra.
John Steinbeck, “Al Dio sconosciuto”, Mondadori, Milano 1996. Traduzione di Eugenio Montale. Nota di Elena Albertini. Prima ed: 1967
Prima edizione: “To a God Unknown”, 1933.
Gianfranco Franchi, settembre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.