Mondadori
1997
9788804431398
Elena Croce, nell’introduzione, scrive che “Coming up for air”, pubblicato nel giugno 1939, viene salutato come “opera centrale di transizione” nel panorama della fortuna critica di Orwell curato da Jeffrey Meyers (G.O.: The Critical Heritage, Routeledge & Kegan, London 1957). Poi spiega: “La transizione che si compie in 'Una boccata d’aria' (…) si presenta (…) come lo spregiudicato innesto che Orwell fa nel ramo gracile del romanzo tradizionale da lui sino allora coltivato, dalla vena che poi sboccherà nei romanzi destinati a dargli fama mondiale: 'La fattoria degli animali' e '1984'. Una vena apocalittica che non aveva alcuna natura irrazionalistica, e si alimentava unicamente della sua luminosa penetrazione dei segni del tempi insita nella sua sensibilità morale” (p. 5).
“Una boccata d’aria” è un romanzo che non può essere seducente per via dell’ambientazione, e della caratterizzazione dei personaggi: un buio sobborgo industriale britannico, inquinato dai venti di guerra (il romanzo è stato scritto nel 1938) corrisponde, per mediocrità e riottosità al fascino, al personaggio principale, narratore in prima persona della vicenda; il grigio George Bowling è un assicuratore di mezza età, appesantito nel fisico e nello spirito da un’esistenza deludente. È come se Orwell avesse insistito nello scolpire il deterioramento, e la decadenza della cultura e delle condizioni del suo popolo concentrandosi nella creazione d’uno spettro di carta che va, neghittoso e consapevole, alla deriva. È il libro della trasandatezza e della meschinità delle ambizioni e della Weltanschauung della piccola borghesia inglese (occidentale): ha la franchezza di negare qualsiasi connotato positivo, e di addolcire, con la satira, una percezione della realtà che non stento a giudicare decisamente onesta e coerente con la futura produzione dell’autore. Eccezionalmente interessante, a questo proposito – come vedremo – quel che Orwell scrive del comunismo, del fascismo e del nazionalsocialismo: considerando la sua particolare acredine nei confronti della tirannide e delle aberrazioni dei regimi totalitari, e l’eccezionale lucidità della sua – sto per adottare un termine fastidioso, ma immediatamente accessibile e comprensibile – “presa diretta”, è difficile trascurarne l’esistenza, e la particolare “scomodità”, soprattutto se si va considerando l’epoca della stesura e il suo peculiare clima politico-sociale (è una segnalazione agli storici: è una fonte letteraria, quindi minore; ma è una fonte, e non trascurabile).
Il romanzo è strutturato in quattro parti, asimmetricamente suddivise in 4 + 10 + 3 + 7 capitoli. Nella prima parte, il narratore si presenta: George “Fatty” Bowling, volto color rosso mattone, occhi celesti; capelli color burro. Talmente sovrappeso da riuscire a vedere solo la metà anteriore dei suoi piedi; ha una moglie, Hilda, che ha smesso d’amare subito dopo averla sposata, e due bambini: Billy e Loria. I piccoli sono descritti come delle sanguisughe; la moglie, come un leprotto, avvizzito tuttavia dalla noia e della sua mediocrità intellettuale: ha uno sguardo ansioso e meditabondo, ma sembra meditare soltanto sui fastidi da procurare al marito, e sulle nuove lamentele da proporre.
La famiglia Bowling abita in una casa identica a molte altre, nei sobborghi industriali: in un quartiere dormitorio, fatto di lunghe file di casette semi-staccate, con la facciata decorata a stucco, siepi di ligustro come confini, la porta colorata di verde.
George esce di casa. Si sente il collo appiccicoso, ed è ossessionato da questa percezione: riflettendo tra sé e sé, afferma che non potrà mai apparire un gentleman, per via della sua trasandatezza e della sua naturale renitenza alla bellezza e alla ricercatezza. Presto comprendiamo la ragione del suo malessere: da reduce della prima guerra mondiale, sente avvicinarsi una nuova guerra e ne è irrimediabilmente sconvolto; perché sa che non è la guerra, ma il dopoguerra il dramma per la piccola borghesia (questo concetto è ripetuto molte volte, instancabilmente: interiorizziamolo, si vede che era caro all’autore). Insiste su un altro tema: la paura. La paura è “il nostro elemento” (p. 38): tutti hanno paura; del fascismo, del comunismo, della guerra, di perdere il lavoro. George, camminando, vede un bombardiere che sorvola la città; e così, la sua riflessione sulla guerra prossima ventura si fonde e si confonde con la sua riflessione sulla borghesia, e sulla sua esistenza. Il passato pre-bellico è idealizzato con una schiettezza e una semplicità impressionanti; è un’Inghilterra edenica quella che canta George, piangendo la sua giovinezza, le guerre che avviliscono e terrorizzano i cittadini, la natura corrotta dall’inquinamento. Questo paragrafo può valere come introduzione ai contenuti che incontreremo nella seconda parte, tutta d’amarcord: “Dio mio, 1913! La pace, l’acqua verde, lo sciacquio della chiusa! Non tornerà mai più! Non voglio dire che non tornerà mai più il 1913; voglio dire quella speciale sensazione che alberga dentro di voi, la consapevolezza di non aver fretta e di non aver paura; uno stato d’animo che, se lo si è provato non è necessario farselo spiegare, ma se non lo si è provato, non c’è alcun modo di farsene un’idea” (p. 143).
Dunque, accompagniamo George nella sua infanzia – anche infanzia della coscienza borghese? – tra le prime, confuse memorie dell’opposizione tra inglesi e boeri, cenni d’antimilitarismo (p. 70: “buona vecchia convinzione inglese che le giubbe rosse sono la feccia della terra, e che chiunque scelga di esserne parte è destinato a morire alcolizzato e andare dritto all’inferno” – segue concessione al successivo, inspiegabile patriottismo “di contingenza”), narrazione della tranquilla esistenza della sua famiglia – bottegai – e della sua integrazione nel tessuto sociale del paese (duemila abitanti, poco più), emerge un elemento che spiega molto della cultura rimpianta: George era un appassionato pescatore. Era un pescatore intelligente, che andava a pesca in qualsiasi stagno: nella nuova Inghilterra che sta vivendo, non può più pescare da nessuna parte. Sono morti i pesci, l’industria ha vinto una battaglia infame: agli uomini è negata la consolazione della vita a contatto con la natura (allora: ne uccidevano, e ne uccidono, più i liquami che i pescatori: memorizziamolo).
La pesca è stata una gioia intensa (p. 114), la più grande della sua vita: non ha rimpianti per la fanciullezza, né per il cricket, né per i dolci: soltanto per la pesca. La civiltà esala l’ultimo respiro: simbolo ne è la sparizione dei pesci (p. 107).
Segue memoria del primo amore adolescenziale, Elsie, e della prima guerra mondiale, trascorsa più tra i libri che in prima linea, per via d’una incomprensibile mansione di guardiano della “costa occidentale” (oh british men, beware Irish!), in un fortino buzzatiano. Il simbolismo adottato è piuttosto comprensibile: muoiono, in quegli anni, entrambi i genitori del protagonista, di malattia; trascinando via con sé la radice del vecchio mondo che conosceva, e del vecchio equilibrio. Bowling si concentra nella narrazione della miseria del dopoguerra; delle prime, odiose assunzioni “a provvigione” o “a cottimo”, annuncio dell’odierno “dogma della flessibilità”, del tragico stato d’animo d’ogni individuo, vittima d’una lotta senza posa, della sensazione di derubare il prossimo, della consapevolezza di poter perdere il lavoro da un momento all’altro.
Viene fortunosamente assunto, infine, come assicuratore; trova moglie, borghese decaduta, e s’accorge che dopo le nozze si fa depressa e sciatta (p. 180); ai suoi occhi, è una medio-borghese, il che implicitamente conferma il suo “salto di classe”; ma nella nuova Inghilterra, piccola e media borghesia sembrano accomunate da un’esistenza deprimente, orfana di valori e punti di riferimento diversi dal benessere economico. Eccellenti una serie di descrizioni della miseria borghese; segnalo in particolare, a proposito della fatiscenza dell’universo borghese, quanto Orwell scrive a p. 181 (II, 10).
L’ex pescatore ed ex ufficiale cambia aspetto fisico proprio quando s’accorge che sta vivendo per sputare sangue e budella, in cambio d’un nuovo paio di scarpe per i suoi marmocchi: si sente vecchio, e tradito dalla vita. Non crede più in niente: trova sostegno e consolazione mitizzando il passato. È il 1938.
Nella terza parte, il romanzo assume, allo sguardo del contemporaneo non-inglese, e dunque non necessariamente interessato all’epica del primo Novecento piccolo borghese, altra valenza; il narratore racconta della propaganda del suo tempo, tutta incentrata sulla contrapposizione democrazia-fascismi (p. 193): occasione è un convegno cui partecipa assieme alla moglie, come spettatore (è ovvio). Bowling tiene a segnalare come sia i laburisti, che i conservatori, che i comunisti e i trotskisti parlino d’odio; sembra suggerire che l’odio sia l’unico comune denominatore a partiti e visioni del mondo altrimenti niente affatto analoghe o similari. Tuttavia interiorizza il messaggio: non nega il pericolo hitleriano (ma: pare avere eguale orrore del regime stalinista: entrambi sono “boia diversi dal passato”, p. 206), e va a parlarne con un vecchio letterato, Porteous. Questi giudica il nazista un avventuriero, e lo valuta un “fenomeno effimero” (p. 206): tende a minimizzare, mostrando a George quanti tiranni la storia abbia già espresso, dalla classicità in avanti. La cultura ha drogato d’atarassia il vecchio maestro: che vive in un mondo in cui le verità eterne non tramontano mai (p. 208), e si disinteressa delle vicende degli uomini.
George non trova pace, e non trova senso. Sprofonda fisicamente (pure ribadendo di sentirsi “spettro” in diverse circostanze) nel suo passato: tornando al suo paese d’infanzia (quarta parte), estraneo a tutti: e tutto ormai è a lui estraneo. Il viaggio sembra potersi interpretare come una fuga, ma il grottesco esito dell’esperienza, come vedrete, e l’amaro e paradossale epilogo incidono sulla nostra lettura della vicenda. Che sembra suggellare quanto di più tetro, irrimediabile, cupo e apocalittico era stato fino a questo momento espresso: il futuro s’è avverato, ed è immagine, morte, desolazione, miseria; e non illudono i palazzi, o le industrie; la natura s’è piegata, e l’anima degli uomini soffre: ha paura d’esistere. E quindi, aggredisce. Un’altra guerra ricorderà agli uomini di quali bassezze siano capaci, e di quali orrori; nuova miseria creerà nuova paura, e soltanto il tempo e la memoria potranno correggere questi abomini. Forse.
***
Orwell cominciò a scrivere questo romanzo nel 1938, quando scoprì d’essere ammalato di tisi: riprese a lavorarci non appena le sue condizioni di salute glielo permisero, durante un soggiorno a Marrakech prescritto dai dottori.
È un libro che può costituire un documento chiaro e terribile della lucidità di Orwell come osservatore della realtà: pur fiacco nell’analisi e nella critica del sistema pre-bellico, edenizzato senza mai convincere il lettore, è tuttavia appagante come satira e critica della borghesia, e apprezzabile nella coraggiosa denuncia della pericolosità dei regimi autoritari, per differenti cause e ragioni. Non un capolavoro, ma un ottimo viatico alla lettura delle opere del grande scrittore inglese.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Eric Arthur Blair, alias George Orwell (Motihari, India, 1903 – Londra, 1950), giornalista e scrittore inglese, di sangue scozzese.
George Orwell, “Una boccata d’aria”, Mondadori, Milano, 1966. Traduzione di Bruno Maffi. Introduzione di Elena Croce. Nota biobibliografica di Aldo Chiaruttini.
Prima edizione: “Coming up for air”, 1939.
Approfondimento in rete: Wikipedia.
Gianfranco Franchi, ottobre 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Un buio sobborgo industriale britannico, inquinato dai venti di guerra (il romanzo è stato scritto nel 1938)…