La notte è cambiata

La notte è cambiata Book Cover La notte è cambiata
Giuseppe Casa
Rizzoli
2002
9788817867405

A quattro anni di distanza dal suo esordio, avvenuto in una Transeuropa, 1998, con la raccolta di racconti “Veronica dal vivo”, lo scrittore siciliano Giuseppe Casa esordì ad alto livello con questo generazionale romanzo di formazione – deformazione, avrebbe detto lui – apparso per Rizzoli. “La notte è cambiata” (13 euro e 50; pp. 282) era una storia che poteva essere raccontata soltanto quando Roma aveva ancora il fascino della città in cui succedeva tutto; vale a dire, fino agli anni Novanta, massimo primi anni Zero. È una storia che racconta cosa poteva capitare a un giovane provinciale sensibile, intelligente e pieno di vita, in questo Paese: cosa poteva capitare in un'anima portata a leggere bellezza e verità, e potenzialità, in ogni cosa. E cosa poteva rappresentare, per una persona di quel livello, l'esperienza capitolina prima del degrado assoluto e incontrovertibile del periodo forzista: della disintegrazione di qualsiasi fascino romano non fosse antico, o distante qualche secolo.

“La notte è cambiata” è una onesta e romantica pagina di narrativa sentimentale – scritta con intelligenza e con partecipazione – e una buona rappresentazione di ciò che costituiva una meta sensata per un ragazzo italiano ed europeo nato nei primi anni Sessanta: vale a dire, l'esperienza di vita in città come Roma, Amsterdam e Londra; vale a dire, l'opportunità di mettersi alla prova nei luoghi cardine dell'avanguardia artistica o politica europea. Ciò che abbiamo smesso di essere, almeno dalla morte di Pasolini e Moravia; ciò che per tornare a essere faticheremo. Perché per tornare a esserlo dovremo imparare a essere una nazione; ma come nazione siamo morti da un bel pezzo.

Silvia se n'è andata. Lui sta da solo, soffre. Come aveva sofferto da ragazzo, a Licata, quand'era finita con Silvana, e pensava al lavoro che non trovava mai e al povero Bobby che se n'era andato e “in famiglia poi io non ci stavo più tanto bene, mi facevo i calcoli e lì io non ci stavo più tanto bene. Mi faceva male la testa a forza di pensare, mi sentivo soffocare a pensare a queste cose. Per un po' stavo zitto, non mi dicevo niente. Eppure io c'avevo 'sta voglia di vivere, di fare qualche cose, perché ero giovane e il sangue mi pulsava nelle vene. Volevo proprio fare qualcosa per me, ero disposto a fare qualsiasi cosa per vivere, mi dicevo” [p. 67]. E per questa voglia di vivere, a diciott'anni, aveva scelto di andarsene a Roma: perché Roma prometteva qualcosa di diverso. Perché a Roma “succedevano le cose”. E più ripeteva agli amici che voleva andarsene a Roma, più in giro avevano cominciato a chiamarlo “il romano” e a trattarlo da scemo. Da scemo del villaggio. E da scemo del villaggio era partito, pensando a Bruce Lee, pensando che conquistare Roma era la sua “Operazione Drago”. “Guardavo la gente per strada che si fermava a guardare i negozi come me e mi dicevo, io sono io, sono qui, in via Nazionale, in mezzo alle vetrine, sono un uomo, faccio quello che voglio, operazione drago” [p. 96].

Roma era un gioco da giocare con sfrontatezza e disinvoltura. Con la potenza invincibile della giovinezza. Con l'allegria di chi sa che può sbagliare quanto vuole, perché per rimediare a certi sbagli c'è sempre tempo. E in una città così, sbagliare diventava pure divertente, a ben guardare – e tendenzialmente fertile.

“Per strada faceva freddo. L'umidità mangia le ossa i negozi sono chiusi per terra tutto bagnato per la nebbia. Mi metto a camminare un pezzo per le strade intorno a Campo de' Fiori, ho la gola secca, bevo a una fontanella. Poi mi pare che giro per via Arenula per andare verso il fiume. Mi è venuta una mezza idea di buttarmi nel fiume, solo devo stare attento a questo cane che mi è venuto dietro, è un bastardo. Non è che gli viene l'idea di buttarsi pure lui, mi dico, peggio per te se lo fai” [p. 34].

Istruttore in palestra, previo diploma all'Isef (raccomandazione socialista), lavorava a Tormarancia: “Siccome ci andavo con la macchina spendevo milioni per la benzina, mi facevo pure un paio d'ore di traffico del pomeriggio” [p. 20]. Ma per trovare quel lavoro era stato un macello. Era stato dappettutto, ma “assumevano solo istruttori altamenti qualificati di step slide hip hop jungle pop funky jorky ball cardiofitness body pump spinning hata yoga tonic gym jazzercise tone up acqua gym gin fizz. Io di queste cose non ne sapevo niente. Praticamente all'Isef non m'avevano detto niente”.

Ma Roma aveva imparato a conoscerla bene, negli anni. Aveva vissuto la Roma alternativa del vecchio poeta siciliano adottato da Trastevere, e della sua segretaria bella e lasciva; e quella dei centri sociali politicizzati a tutto spiano, e dei concerti delle band indie rock, a pugno chiuso; quella delle borghesi di mezza età e mezza lucidità che mantenevano i ragazzotti, e quella dei maschiotti che cercavano compagnia e massaggi. Aveva vissuto l'ultima Roma con qualche straccio di potenzialità rivoluzionaria, quella della Pantera, e quella sonnacchiosa che restava viva nonostante il pentapartito, nonostante democristiani e socialisti. L'ultima Roma capace d'essere fedele alla sua essenza.

Ma poi le cose non sarebbero più state come potevano sembrare. E la speranza si sarebbe disintegrata, dopo qualche metamorfosi buffa. La fuga sarebbe diventata la norma. E le altre Roma la giustificazione per non ammettere un'incapacità di fondo – quella d'essere presente nel posto in cui capitano le cose, forse perché le cose possono capitare dappertutto, e non è questione di zeitgeist, o di posti: è questione di talento o di genio e basta.

Casa mostrava, neanche quarantenne, una bella capacità di giostrarsi tra flusso di coscienza, narrativa da performance, dialoghi fedeli al parlato e improvvise prepotenti introspezioni – una giostra che sembrava destinata a figliare qualcosa di potente. Una potenza che si direbbe sia rimasta inespressa. Vediamo allora di restituirlo al presente. Sarebbe affascinante immaginarlo impegnato in un romanzo del ritorno: del ritorno nell'isola abbandonata, e nella Licata oggi distante. Per raccontare cos'è successo: cos'è stato del sogno; di Roma, di Londra, della letteratura; della generazione che doveva venire dopo; della fuga, del concetto di avventura.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giuseppe Casa (Licata, 1963) scrittore italiano. Ha esordito pubblicando la raccolta di racconti “Veronica dal vivo” per Transeuropa, nel 1998.

Giuseppe Casa, “La notte è cambiata”, Rizzoli, Milano 2002.

Approfondimento in rete: Wiki

 Gianfranco Franchi, gennaio 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Romanzo di deformazione, piuttosto generazionale…