Feltrinelli
1976
9788804442400
Spirito critico del fascismo per antonomasia, animo riformista e sensibilità da idealista autentico, Giuseppe Bottai è una delle figure del regime maudit (per eccellenza) più facili da sdoganare, e da restituire alla centralità e al rispetto nella memoria dei cittadini. Bottai era uno che sognava che il fascismo non si trasformasse in regime poliziesco e reazionario, preferendo restasse vicino alle sue origini rivoluzionarie e nazionaliste; Bottai non credeva affatto nell'opportunità d'un'alleanza con il regime nazista, né nella giustezza delle atroci leggi razziali; Bottai credeva che la grande forza dello Stato sarebbe stata e rimasta nella critica e nella dialettica tra oppositori – preferibilmente giovani – e classe dirigente: sognava una nazione libera, indipendente e forte, capace di essere a fianco dei lavoratori, dei sindacati e delle nuove generazioni, maestra di civiltà e di cultura; fu e rimase un favoloso magnete e mecenate per intellettuali e artisti (da Guttuso a Ungaretti, da Alvaro a Zavattini) nella sua rivista “Primato” e nel corso della sua attività politica; fu grazie alle sue riforme se intelligenze del calibro di Ungaretti poterono conquistare una cattedra universitaria. È caduto in disgrazia e non si è mai più risollevato, post 1943, preferendo – coerente con la sua ribellione a Mussolini – arruolarsi nella Legione Straniera pur di non trovarsi a sparare contro compatrioti; s'è distinto nella lotta al nazismo e infine ha vissuto gli ultimi anni da eminenza grigia: non del MSI, che stupidamente lo considerava un traditore.
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Tesi di laurea dello storico Giordano Bruno Guerri, classe 1950, “Giuseppe Bottai, un fascista critico” appare in prima edizione per Feltrinelli nel settembre 1976: è un saggio fascinoso e necessario, perché racconta chi fosse davvero “l'uomo migliore del regime”, per dirla con le parole di Bocca, o “il più fascista dei fascisti”, secondo Glorioso: nell'introduzione, Guerri sostiene che fosse “il solo che avesse una visione organica dell'ipotetico Stato che il fascismo avrebbe dovuto costruire”, presentandolo come uomo di cultura dalle capacità intellettuali non inferiori a Gentile e a Volpe. Bottai fu “ideologo e organizzatore di cultura, studioso di economia e poeta, soldato che sentiva misticamente la guerra e uomo legatissimo alla famiglia, rivoluzionario e in tutto figlio del proprio tempo, diviso tra un radicato, insopprimibile legalitarismo e una altrettanto radicata tendenza alla critica e all'autocritica” (p. 15)
Toscano di sangue e romano d'adozione, figlio di due repubblicani, Luigi, commerciante di vini di Monsummano, ed Elena, spezzina, uno zio repubblicano e antifascista, Alfredo, Bottai sognava di diventare scrittore e giornalista culturale; inclinazione che mai abbandonò, a dispetto degli studi giuridici. Nel 1915, diciannovenne, interrompe gli studi per andare al fronte; orgoglioso e innamorato della cultura latina, è entusiasta d'essere schierato al fianco della Francia. Scrive i primi versi in quegli anni: saranno pubblicati nel 1921, col titolo “Non c'è un paese”. Non si tratta di versi memorabili, a quanto pare. Torna a Roma con il grado di tenente e “una manciata di medaglie”, scrive Guerri. E l'incontro con Mussolini è determinante: la natura originaria del fascismo come “antipartito”, la sua trasversalità, la sua orgogliosa opposizione al bolscevismo, convincono Bottai che la sua strada è stare al fianco di quell'uomo: la sua strada è fare politica. Scrive su diversi giornali: ostile alla borghesia e alla monarchia, favorevole alle colonie e all'espansionismo, invita all'azione e al coraggio, al nazionalismo e alla rivoluzione. Si distacca dal Futurismo, dopo breve infatuazione, e guadagna peso politico a Roma coordinando la prima squadraccia della città eterna; nel 1921 inizia a collaborare col “Popolo d'Italia”. Fu il più giovane candidato fascista nelle elezioni per la Camera, sempre nel 1921; venne eletto, col supporto dei voti delle provincie laziali, salvo ritrovarsi espulso nel 1922 per “non raggiunti limiti di età”. Il fascismo era ancora movimento, non partito: nell'estate del 1922 il PNF avrebbe avuto 400mila iscritti. Bottai partecipa alla Marcia su Roma; è protagonista di un triste episodio nel quartiere di San Lorenzo, già allora ostile al fascismo. Ma Bottai vuole ben altro che le violenze e il manganello: sogna un fascismo intellettuale, capace di scrivere una rivoluzione, e non con le armi. Scriveva, misticheggiante (“raptus lirico”, secondo Guerri):
“Il fascismo dev'essere qualcosa di più che un metodo di governo: deve essere un metodo di vita, quindi ricercare la vita non solo ove essa è istituto, legge, programma di partito, ma più in là, dove essa è ancora formantesi coscienza del popolo, più in fondo, dove essa è ancora palpito indistinto dell'idea, nei sostrati intimi della nostra razza, nelle ragioni profonde del nostro tempo, nella sensibilità dei nostri contemporanei, nel dolore dei nostri simili; deve essere il ritmo di una nuova ansia, il sigillo d'una nuova grandezza, e l'armonia d'una nuova bellezza (…). Il Fascismo potrà essere quello che fu il sogno estremo dei suoi morti giovanetti: la rinascenza italiana “ (p. 52).
Guerri chiarisce il quadro del “suo” fascismo: doveva essere fondato sulla necessità del dibattito e del dialogo (!), su una limpida sensibilità sociale, sull'elettività delle cariche, sulla formazione di una nuova classe dirigente estranea sia all'illegalismo fascista precedente e successivo alla marcia su Roma, sia agli aspetti deteriori del socialismo e del liberalismo. Per questo – perché il fascismo fosse oggetto di una revisione e di una critica continua – fondò una rivista fondamentale: il quindicinale “Critica fascista”. Era il 1923. Sarebbe durata per vent'anni, passando dalle cinquemila copie iniziali a dodicimila. In quelle pagine, denunciò la violenza degli squadristi, il protezionismo industriale, la sottomissione ai nazisti, la scarsa opportunità di un'entrata in guerra, l'assenza di dibattito critico: ma questo suo revisionismo era, per il Duce, “più o meno acquitrinoso pantano demoliberale” (p. 79). Esito primo? Se vorrà dirigere giornali, sotto il fascismo, se li dovrà fondare, il Bottai. Così farà.
Fu ministro delle Corporazioni, regolarmente schierato a fianco dei lavoratori e dei sindacati, e dell'Educazione Nazionale. Seppe sempre affascinare le nuove generazioni, ostinandosi a indirizzarle a un'improbabile rivoluzione interna al fascismo: insegnando loro a combattere il fascismo dal di dentro.
Non fu razzista, non credette mai nel razzismo biologico; politicamente, accettò il razzismo, cercando tuttavia – per quanto possibile – di correggerne gli aspetti deleteri; quando per legge fu necessario differenziare le scuole ebraiche da quelle italiane, lui intendeva – era il 1938 – attuare questa riforma senza che fosse “persecuzione” né “mortificazione” (p. 168). Naturalmente era molto difficile; come se non bastasse, cominciarono a circolare voci a proposito del sanguemisto della sua famiglia. Chi simpatizzava per gli ebrei diventava, in quel triste momento politico, un mezzo ebreo. Oggi, fa onore a Bottai aver tenuto questa posizione, e gliene va dato atto.
Prese sempre le distanze dal nazismo, criticandone gli assassini politici, il fanatismo antisemita, le grottesche parate. Avrebbe preferito entrare in guerra al fianco della Francia (p. 209) e dell'Inghilterra; più ancora, avrebbe voluto non si entrasse in guerra. Giudicava il fascismo ferito e pregiudicato dal mussolinismo: pretendeva si potesse tornare indietro. Finirà per combattere i nazisti tra i soldati della Legione Straniera. Amnistiato, nel novembre 1947 torna a Roma. Muore nel 1958 per il morbo di Parkinson, in relativo isolamento: considerato traditore nel MSI, cercava di animare l'ala destra della DC. Diceva, in ogni caso: “Meglio essere ex, che essere ics”. Non aveva dimenticato chi era, e non aveva abiurato.
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Com'era, fisicamente, Bottai? “Slanciato, di carnagione scura, l'aspetto un po' arabo, lo sguardo serio, veste con eleganza, orologio al panciotto, colletto duro, modi misurati e parlare tranquillo. I capelli neri pettinati all'indietro, il naso prominente, il mento poco pronunciato danno al suo volto un aspetto acuto” (p. 25).
Fu un lavoratore instancabile, ottimo padre di famiglia, estraneo alla mondanità e felice di restarsene coi suoi cari; allegro e aperto soltanto col suo clan, freddo e distaccato con gli estranei, capace di un eloquio pacato e di toni moderati in un'epoca portata, piuttosto, al massimalismo e all'oratoria a effetto. Fu un intellettuale con grandi sogni e grande orgoglio patriottico: per questo va ricordato, per le sue Carte e per la sua onorevole dedizione al popolo, alla nazione e all'ideale.
“La nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori, per potenza e durata, a quelli degli individui isolati o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello stato Fascista” (Carta del Lavoro, Dichiarazione I) – ha sognato un sogno sbagliato, ma ha saputo difendere la democrazia e la centralità della dialettica e della critica sotto regime, con grande coraggio e determinazione. Una lezione da non dimenticare.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Giordano Bruno Guerri (Monticiano, Siena 1950), scrittore, giornalista e storico italiano. Si è laureato in Lettere con una tesi su Giuseppe Bottai, poi pubblicata da Feltrinelli (1976). Già direttore del mensile “La Storia Illustrata”, collabora col “Giornale”. Ha lavorato come redattore per Bompiani e Garzanti.
Giordano Bruno Guerri, “Giuseppe Bottai. Un fascista critico”, Feltrinelli, Milano 1976. Prefazione di Ugoberto Alfassio Grimaldi. In appendice, Bibliografia e Indice dei nomi.
Gianfranco Franchi, agosto 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Tesi di laurea dello storico Giordano Bruno Guerri, classe 1950, “Giuseppe Bottai, un fascista critico” appare in prima edizione per Feltrinelli nel settembre 1976: è un saggio fascinoso…