LEG
2010
9788861020740
Sino a oggi, mancava un contributo fondamentale per orientarsi a dovere nel dibattito storiografico sul confine orientale, nella drammatica contingenza della Seconda Guerra Mondiale e della questione di Trieste: quello relativo alle relazioni tra partito comunista jugoslavo e partito comunista italiano. Entrambi subordinati all'Urss, i partiti comunisti IT e YU si trovarono tuttavia a dover fronteggiare la dolorosa questione di Trieste, delle cittadine dell'Istria costiera, di Fiume e di Zara, città storicamente popolate da una maggioranza assoluta di cittadini di lingua e cultura veneta (traduciamo: italiana), mai messa in discussione da niente e da nessuno. Ma la Jugoslavia di Tito le reclamava a sé, mentre l'Italia non aveva intenzione di perderle. L'Italia, attenzione, ma non il Partito Comunista Italiano, all'epoca assolutamente estraneo a una concezione da partito “nazionale”, e, almeno in quel frangente, drammaticamente cieco al patriottismo, e al rispetto del sacrificio di tanti concittadini nel Risorgimento e nella Prima Guerra Mondiale.
Perché il Partito Comunista Italiano fu, sin dall'inizio e fino a quando fu opportuno, propenso ad assegnare addirittura anche Trieste alla Jugoslavia, mostrando tutta la sua sottomissione al PC jugoslavo? “Frontiera rossa” di Patrick Karlsen, storico giuliano classe 1978, va a darci la risposta spiegandoci le interazioni tra i due partiti tra 1941 e 1955, mostrando, secondo Elena Aga-Rossi, un quadro “molto più complesso e articolato di quanto conosciuto finora”: per esempio, raccontandoci che il Pci “fu costretto non soltanto a mettere da parte in Istria e a Trieste la politica di unità nazionale perseguita nel resto d'Italia, ma a sconfessare e ad isolare politicamente i dirigenti locali che non seguivano le direttive jugoslave, […] con effetti disastrosi anche per l'unità del Cln” (p. 19). D'altra parte, come scriveva Bogdan Novak, “Un Cln ben organizzato che rivendicasse almeno le zone costiere della Venezia Giulia abitate dagli italiani avrebbe costituito un pericolo per le pretese dei comunisti jugoslavi” (nota 125, p. 59). Secondo il grande storico Raoul Pupo, il Cln di Trieste era il “granello di sabbia capace di bloccare il meccanismo del monopolio comunista filojugoslavo sull'antifascismo italiano” (p. 75; altrimenti, cfr. “Il lungo esodo”): i resistenti jugoslavi ne erano ben consapevoli, come i comunisti giuliani fedeli al denaro di Belgrado.
La Aga Rossi ricorda che “dopo la liberazione del Paese il Pci assistette senza protestare alla eliminazione degli italiani considerati 'fascisti' nelle foibe e nei campi di internamento, e accettò l'interferenza continua di agenti dell'Ozna”: fu soltanto la “aperta frattura” tra Tito e Stalin che spinse il Pci al di fuori di questa supina posizione di accettazione di qualunque violenza fosse commessa nel nome del socialismo. E quando nacque un partito comunista locale, a Trieste, diretto dalla spia Vidali, il Pci cominciò a ricevere i finanziamenti da Mosca, e non più da Belgrado: smarcandosi, finalmente, da una sudditanza incresciosa.
È la sudditanza in virtù della quale “L'Unità” del 31 luglio 1945 definiva foibe e violenze partigiane “infami montature”, alla stregua – testuale – di quella inscenata da Goebbels per le “fosse di Katyn” (p. 109). Quella in virtù della quale, ad esempio, secondo gli accordi firmati il 4 aprile 1944, il Pci doveva “popolarizzare” Tito “non solo come capo della nuova Jugoslavia, ma anche in qualità di 'campione della resistenza armata di tutti i popoli oppressi contro l'imperialismo fascista'”. Proprio tutti, nessuno escluso. Chiaro. In cambio Togliatti andava mostrato, in Jugoslavia, come più modesta “guida del popolo italiano e della lotta di liberazione da esso condotta contro l'occupante tedesco e i traditori fascisti” (nota 92, pagina 51).
Karlsen ribadisce e ricorda, nell'introduzione, che il Pci apparteneva a una “scala gerarchica di comando strutturata espressamente da Stalin in funzione degli interessi della politica estera dell'Urss. Sebbene al suo interno non fossero preclusi margini di autonomia al Pci, l'appartenenza al movimento comunista internazionale gli avrebbe impedito di agire in sintonia con gli interessi nazionali”: ovvero, vale la pena ribadirlo, con quegli obbiettivi di politica estera condivisi in Italia “dalle altre forze politiche antifasciste al governo […]”.
Se L'Urss aveva espresso parere favorevole alle modifiche territoriali del confine orientale italiano già nel 1941, nel 1942 il Komintern aveva accettato la rivendicazione della Venezia Giulia da parte di Tito. Nel 1944 il Pci accettò di ritirarsi dal confine orientale italiano, cedendo la giurisdizione politica del movimento comunista al suo omologo jugoslavo. Per registrare la prima diversificazione della politica del Pci rispetto al disegno annessionista jugoslavo, bisogna aspettare il maggio del 1945. Insomma: come Karlsen insegna con la dovuta chiarezza, “l'egemonia del Partito comunista jugoslavo nella Venezia-Giulia si realizzò dal 1941 al 1945, in un corrispondente ritrarsi della sovranità politica del Pci” (p. 21). Un dirigente comunista italiano come Vincenzo Gigante, nel dicembre 1943, avrebbe spiegato l'assurda decisione motivando che bisognava rigettare qualsiasi posizione fosse stata dettata dal “sentimentalismo”, allineandosi alle direttive di un unico centro: il partito comunista jugoslavo. Ci fu chi si oppose, nelle file comuniste: Karlsen racconta la vicenda di Lelio Zustovich di Albona d'Istria, comunista, arrestato dai partigiani e fucilato come “nemico del popolo” per aver rivendicato la sua appartenenza al partito comunista italiano e aver criticato certe rotte. E quindi il compagno Zustovich diventava un borghese o un fascista: in quanto tale andava punito, secondo le logiche rosse. Karlsen rileva, come già Pupo, l'uso “elastico” del termine “fascista”: nel lessico dei cittadini ideologizzati, andava spesso a sovrapporsi alla parola “borghese” per “screditare le posizioni non coincidenti con quella comunista” (p.44). Nelle minoranze comuniste italiote del 2010 si può apprezzare lo stesso ridicolo fenomeno.
La storica Elena Aga-Rossi, nella prefazione, spiega perché oggi può uscire un libro come questo, con la vera speranza di andare incontro con equilibrio e lucidità a un pubblico di qualsiasi colore politico: “Le tormentate vicende del confine orientale stanno uscendo dalla politica, con le inevitabili polemiche che l'hanno accompagnata, per entrare nella storia. Alla nuova documentazione disponibile si è aggiunta la scelta, da parte di alcuni protagonisti e testimoni superstiti, di parlare delle loro esperienze, di 'rivelare', dopo cinquant'anni di silenzi imposti dal regime titino e dal Pci, cosa fosse realmente accaduto” (p. 17).
E allora oggi vale la pena ribadire, con la studiosa, che “fino a che le tragiche conseguenze del comunismo sulla vita delle comunità e dei singoli non verranno recepite, ma si continuerà a scrivere di 'errori' e non di crimini, la storia del Novecento continuerà ad essere incompleta” (p. 20). E il libro di Karlsen va proprio nella direzione necessaria: “togliere credibilità alle interpretazioni giustificazioniste e alle rimozioni delle atrocità commesse dai comunisti, in nome di un'ideologia su cui la storia ha espresso ormai un giudizio definitivo”.
Qual è l'eredità di quel periodo storico, e di quel che è accaduto? Karlsen, in un'intervista rilasciata a Enrico Milic di Bora.La, ha così chiosato: “Il comunismo è una forza storica che si è esaurita, almeno nelle forme politiche e istituzionali assunte nel Novecento. Il Pci non esiste più, la Jugoslavia è finita. Rimangono le nostre terre; rimane l’Italia, e il problema di armonizzare la sua politica adriatica ed europea con quella dei 'nuovi' Stati di Slovenia e Croazia; rimane l’esigenza di giustizia sociale. Insomma, restano in eredità alcune delle domande principali che hanno animato il periodo preso in esame nel libro. Credo che ci dobbiamo augurare di trovare delle risposte diverse”.
E non dobbiamo stancarci – ribadiamolo – di domandare giustizia per i 300mila esuli italiani, per i circa 12mila infoibati, e per questi sessant'anni pieni di ingiustizie, damnatiomemoriae, opportunismi ideologici e partitici, rimozione capziosa, negazionismo, riduzionismo, giustificazionismo. Tutto qui.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Patrick Karlsen (Genova, 1978), giornalista, storico e poeta triestino. Ha esordito con la raccolta di poesie e prose “Postnovecento” nel 2005. Attualmente è borsista all'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli.
Patrick Karlsen, “Frontiera rossa. Il Pci, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955”, LEG, Gorizia, 2010. Prefazione di Elena Aga-Rossi. In appendice, bibliografia e indice dei nomi.
Gianfranco Franchi, novembre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Poderoso saggio di Patrick Karlsen, storico triestino classe 1978