La quinta stagione

La quinta stagione Book Cover La quinta stagione
Fulvio Tomizza
Mondadori
1965
9788831709743

1965. Trentenne, Fulvio Tomizza pubblica il suo terzo romanzo, sempre per Mondadori: “La quinta stagione” è la storia di un ragazzo istriano, campagnolo, che cresce negli anni tristi e angoscianti della guerra, e adolescente se la ritrova in casa; e tutto quel che sembrava così cupo e distante, quella gran paura che si cercava di esorcizzare con giochi e simulazioni, finendo forse per pensare di poterla così dominare, a poco a poco si impadronisce della sua quotidianità; e il presente si fa più cupo e freddo ancora. Tomizza riesce a raccontare, con una narrazione quando vivida quando ragazzina quando incredibilmente popolare, i diversi stadi del disastro; lo sguardo del suo protagonista, Stefano Markovic, va prendendo coscienza dei progressivi cambiamenti di scenario e delle disgrazie figlie della guerra civile, e dei più imprevedibili rovesci della sorte, con meraviglia bambina, e vero candore.

Bartolomeo Di Monaco ha scritto, della lingua di Tomizza, “che si nutre di parole nate apposta per unire genti diverse. È una scrittura che si guarda intorno alla ricerca di segni, di premonizioni, e ci conduce con sé lungo un percorso accidentato di cui avvertiamo le oscillazioni, come un corpo magro che mostri tutte le sue ossa”. Va detto che in questo libro, molto più che nei precedenti, “Materada” e “La ragazza di Petrovia”, l'artista umaghese adotta primizie lessicali figlie d'un territorio multietnico. E scegliendo certe parole esaspera la veridicità dei sentimenti e dei fatti descritti: non possono che essere accaduti laggiù, e col popolo per protagonista, e proprio in quegli anni se qualcuno chiama i ragazzini, ogni tanto, “dezza” o “dizza moja”, se si finisce per andare dietro una “graia” a liberarsi, se il solletico si chiama “grinzolo”, se la tettoia si chiama “lotria” [dal croato “lotra”, cioè “rastrelliera”], se il prato tra una casa e l'altra si chiama “rodina” [dal croato “rudina”]. Un bel glossario, in appendice, aiuta il lettore nostrano, parlante “taliàn”, a orientarsi a dovere.

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Alessandro Mezzena Lona, sul “Piccolo”, in occasione della nuova edizione del romanzo [Marsilio, 2012], ha contestualizzato e spiegato: «“La quinta stagione” è il primo capitolo di una quadrilogia che ha per protagonista Stefano Markovic, l’alter ego narrativo di Tomizza. In seguito, il personaggio ritornerà ne “L’albero dei sogni”, “La città di Miriam” e in quel libro in forma di lettera che è “Dove tornare”. Apparentemente, potrebbe essere raggruppato tra i romanzi di formazione. In realtà Tomizza, che aveva già iniziato a lavorare a questa storia nel 1957, si spinge molto più in là. Il paese di Giurizzani che Tomizza ritrae con pennellate ruvide, coloratissime e assai efficaci, è sospeso in una sorta di equilibrio delicato. Dove c’è posto per i primi turbamenti carnali, per le sfide impossibili all’autorità degli adulti, per i riti sempre uguali della civiltà contadina. Poi, all’improvviso, quel microcosmo dove vivono fianco a fianco italiani e slavi scopre il fascino del Male”».

E cos'è questo male? È la guerra. Sono le divise. Sono le persone che parlano la stessa lingua o lo stesso dialetto che si sparano addosso. Sono i tedeschi che non si stancano di fare rappresaglie. Sono i repubblichini che non hanno pietà di nessuno, come se non avessero intelligenza. Sono i partigiani titini che cominciano presto a infoibare povera gente che non aveva mai fatto politica e non c'entrava niente, guidati dalla sinistra logica di una stella rossa.

Bandella Mondadori, 1965: “Dietro gli avvenimenti, la terra istriana di confine e un villaggio patriarcale, mistilingue, che solo l'incalzare dei fatti riesce a destare dal torpore: un paesaggio e un ambiente quasi mitici, in cui Stefano ha trascorso la sua infanzia piena, selvaggia, e si muove come chi senta in segreto di dovere lasciarli per sempre”. Sognando certo un ritorno, vagheggiando sempre un ritorno: in una terra pacificata e restituita alla sua armonia contadina e marinara, simile a quella conosciuta per millenni, sotto Vienna, Venezia, Costantinopoli e Roma. Sicut era in principio.

Nella nuova edizione Marsilio, 2012, Helena Janeczek, nella prefazione, ha scritto: “La cosa più sconcertante de La quinta stagione è che sia al contempo un classico romanzo di formazione e la sua negazione. Stefano cresce, certo, ma quella che era sempre stata creduta banco di prova di coraggio e modello d'iniziazione per ragazzi - la guerra, insomma - qui non possiede più nulla di formativo”. Semplicemente si rivela distruttiva, corrosiva e umiliante. Semplicemente finisce per disintegrare tradizioni e relazioni. Semplicemente uccide, e cancella. E può non restare altro che farne letteratura.

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Cosa c'è di veramente bello in questo romanzo? Diverse descrizioni. Per esempio, quelle delle strade e dei dintorni di Petrovia, Giurizzani. Così: “Petrovia poteva dirsi un paese vero e proprio, con le case unite le une alle altre sì da formare dei vicoli nel mezzo, e aveva la luce elettrica. Giurizzani s'era invece formato per caso; una cucina dava sugli orti, un tigòr offriva il proprio letame alla strada. S'erano fermati alla scuola, davanti alla casa di Villi, figlio del guardiacaccia […]. La strada si stendeva irta di sassi”. Poco più avanti, Umago: “D'improvviso apparve il mare: una striscia di cielo sospesa che scintillava come vetro. Perfino dai campi giungeva un odore diverso. Era l'impressione di sempre, quando vedeva il mare nelle giornate di calura in cui andavano con i carri dei buoi a bagnarsi: come di un grande, imperdonabile spreco e insieme un intimo terrore del troppo vasto [...]” [p. 37].

Altrove, siamo sulla “strada-rea”, cioè la strada regia, verso Umago, dalle parti del torrente Patòc. Siamo su uno stradone rosso-polveroso, tra le acacie. “Il viottolo ombroso per gli alti graioni, dal quale non sporgeva una pietra, veniva molte volte attraversato da puzzole e faine che gli ricordavano i racconti di quando da Materada fino al mare era tutto bosco di querce e si poteva procedere per i rami senza toccare mai terra; orsi e cinghiali si nascondevano allora nel folto mentre scoiattoli saltavano da un carpine a un faggio. Tratti di bosco vennero poi dissodati soprattutto ad opera del bisnonno della bicicletta che piantò le prime viti; ne avanzavano ancora dei pezzi, cinti dal fildiferro, nei quali si andava a raccogliere funghi. Qualche dritta quercia si elevava isolata anche su un rosso campo tutto arato, mentre funghi continuavano a spuntare anche in mezzo ai filari. Camminava cantando [...]” [p. 104].

Altrove, il panorama raccontato da un piroscafo. Passiamo Salvore: “Passarono Salvore e spuntava il primo sole quando mamma gli mostrò la costiera, una collina nuda e tutta sassi lungo la quale lei pascolava le pecore da ragazza, ai tempi in cui nonno Gregorio possedeva ancora la sua stanzia. Prendeva il trenino tutte le mattine a quell'ora e portava il latte a Pirano, i vasi in spalla, 'mica come adesso con la carrozza e il battello'. Il mare si stendeva a perdita d'occhio oltre le boe; gabbiani rasentavano il pelo dell'acqua ancora colorata di rosso. Si apriva all'infinito” [pp. 44-45].

Capodistria. “C'era già stato una volta. Dietro alla casa isolata che limitava il piazzale del porto, sorgeva il monumento a Nazario Sauro. […]. Nei risvolti degli abiti quasi veri, nei solchi delle rughe esatte, si annidavano macchie di ruggine color verderame. Era rimasto paralizzato sull'asfalto: gli pareva di trovarsi alla presenza di un dolore sconfinato (quelle grosse catene mai viste), ma anche cattivo, annunciante vendette inumane” [pp.45-46].

Trieste. “Le strade erano piene di gente. Lo colpirono i palazzi subito alla riva, alti quanto le corazzate. Il colore vero del mare lo colse in una striscia sul berretto bianco di un gelataio […]. Negozi, vetrine, gente e ancora gente; come facevano a vivere tutti quei palazzi? E chi procurava loro da mangiare? Giurizzani lavora per Petrovia, Petrovia per Umago, Umago per Trieste. Qui la gente era al di sopra di tutti. Ma chi veniva a trovarsi anche al di sopra di Trieste? Roma, la capitale, dove le vie erano forse di vetro” [p. 47].

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Cosa c'è da considerare notevole dal punto di vista storico-documentaristico? Diversi passi. Per esempio, i primi in cui vengono descritti i primi partigiani. Siamo ben al di là dell'8 settembre 1943. Nelle campagne istriane, arrivano i “ribelli”. Per prima cosa, per un ragazzino come Stefano, sono soltanto un nome: un nome che richiama qualcosa di pauroso. “Figure di uomini malvagi coi capelli sugli occhi che dormivano nei boschi, mangiavano cose dei boschi, tagliavano i pali della luce, otturavano le condutture dell'acqua e in battaglia combattevano all'ultimo sangue. Potevano dirsi fratellastri dei bolscevichi che sul manifesto spezzavano un crocifisso e facevano scappre giovani suore con gli occhi sbarrati” [p. 71].

Ma poi si fanno riconoscere. Nel bene, e nel male. Così: “I ribelli avevano buttato nella foiba di Pisino trenta uomini di Parenzo. Si diceva che metà ne avessero ammazzati e metà li avessero lasciati vivi; avevano poi legato insieme col fildiferro uno morto e uno vivo e li avevano spinti giù. Lo raccontava una famiglia di sfollati da Rovigno, lontanamente imparentati con gli Zacchigna, che da qualche ora erano venuti ad abitare in una casa vicino al maestro. Prima di tornare da loro per farsi raccontare ancora l'accaduto, papà affermo di averli conosciuti uno per uno, per lo più bottegai e commercianti come lui, gente che aveva solo pensato al lavoro” [pp. 107-108].

Ma il male non è soltanto rosso. I poveri popolani istriani vivono con angoscia le ripetute, feroci rappresaglie tedesche. Sanguinose e nefaste e crudeli come le azioni titine: come a Villanova, dove gli “gnocchi” prendono e fucilano ventidue persone, per la maggior parte sotto i trent'anni. “Cadevano l'uno sull'altro come sbalzi di frumento”, dice uno. “Stefano pensò che per seppellirli sarebbero dovuti andare in tutte le parrocchie dell'Istria, anche nelle più lontane, per prendere tutti i preti fino a metterne insieme ventidue” [p. 124].

E quando un matto come il povero Tini Crez, grande ubriacone, si diverte a prendere per i fondelli sia i fanatici fascisti sia i fanatici comunisti, ghignando “che possano crepare gli uni e gli altri”, non manca un repubblichino che stringe le mascelle e fa partire una mitragliata. Lo scenario è questo qui. A cadere è l'innocenza e la semplicità del popolo istriano. A sporcarla, la guerra. A umiliarla, violenze sempre più quotidiane e sempre più incomprensibili. Fino a che Stefano, il ragazzino, non viene messo in salvo: “Dete moj”, gli dice il nonno, “diventerai un prete, una persona istruita e un giorno tornerai a insegnarci la parola di Dio”. E sbuffando parte la corriera. Destinazione, Capodistria.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “La quinta stagione”, Mondadori, Milano, 1965. In appendice, “Note” [Glossario istroveneto-croato]. Collana “Narratori Italiani”, volume 132.

Prima edizione: Mondadori, 1965. Poi sempre Mondadori 1987, 1997. Oggi in Marsilio, 2012: ISBN, 9788831709743.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, aprile 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Storia di un ragazzo istriano, campagnolo, che cresce negli anni tristi e angoscianti della guerra, e adolescente se la ritrova in casa…