Cooperativa scrittori
1977
A un passo dal Settantasette, Roma: una generazione sta per sprofondare nell'ultimo illusorio movimento di protesta politica, sognando una rivoluzione rossa e antiborghese, per ritrovarsi infine a ricostruire, con pazienza, la propria identità individuale, lacerata e sbranata dalla farneticazioni del delirio collettivo comunista. Uno di quei ragazzi, narratore e protagonista del romanzo, è un giovanotto eretico che saprà prendere le distanze dalle messinscene dell'ideologia e si ritroverà a fronteggiare, simbolicamente, guerriere statue come in sogno, prima di ricostruire e riconoscere sé stesso: finalmente padrone dell'aggettivo possessivo “mio”, almeno riferito alle mani, ai piedi, alla faccia (all'anima, verrebbe da dire, ma “anima” sembrava allora una parola proibita. Tuttavia qui si nasconde bene tra le righe, e infine si sprigiona, danzante). Finalmente libero di decidere della sua esistenza senza doverne rispondere a un gruppo, o a un comitato: pronto ad affrontare la vita per quel che è, strappata la maschera della giustizia e della verità del comunismo, terminata la finzione della povertà e dell'indigenza coatta, nata per scoprire cosa fosse l'esperienza proletaria tra proletari (cioè, nella misura in cui i compagni credevano in una comune piattaforma di lotta, no, perché i bborghesi...).
Irreperibile, “La casa in comune” (Cooperativa Scrittori, Roma, 1977) è un buon romanzo di formazione e un affascinante documento della visione sociale e politica di un piccolo gruppo di universitari o comunque di giovanotti avvelenati dal socialismo e dallo spettro di Marx, Mao e Lenin. Raccontato – cosa difficile, ben lo sappiamo – nel momento, fortunatamente invecchia ma invecchiando scintilla. Scintilla di intelligenza, grottesca registrazione dei fatti e anarchica libertà autoriale: mostra limiti e aspetti romantici di esperienze al limite, e non le giudica; le scavalca, infine, proprio nelle ultime battute, e scavalcandole le annienta. Ridicolizzandole, come fossero adolescenza del pensiero, come fossero infanzia dell'intelligenza. Ma senza cattiveria.
*
Ilario è uno studente universitario meridionale, fuorisede a Roma. A mantenerlo (ancora per poco), i poveri genitori. Vagheggia romana fortuna camminando per via Veneto, le tasche vuote e i pugni chiusi. Si sente un provinciale povero e inutile, la sua vita gli appare “idiota e immotivata” (p. 15); supera esami come può, non lega con nessuno. Sin quando non incontra Marco, borghese, rivoluzionario, extraparlamentare: fiume in piena di entusiasmo e dedizione al socialismo, sogna di scrivere il grande libro del popolo (nella lingua del popolo) per regalare una nuova epica proletaria alla nazione. Pardon: ai cittadini. Vuole essere un autentico traditore della borghesia: diventare un “organizzatore, un politico” (p. 41). Crede nella lotta di classe, vuole vivere da proletario tra i proletari, in borgata. Assieme, i due decidono di affittare una casa in comune, aperta a tutti: Marco è pieno di energia: “Finalmente si vedrà chi ha il coraggio di rifiutare il modello di vita privata borghese! Non sarà facile amministrarsi (…). Dovremo inventare nella prassi un comportamento nuovo. Tutto dovrà essere rimesso in discussione! (…) Saremo più avanti di tutti” (pp. 36-37 e ss.).
Così, arredata alla meglio, questa casa dagli alti soffitti, le pareti tutte un manifesto (James Dean in cesso incluso), le librerie piene di saggi e trattati politici (ma c'è qualche buon romanzo sudamericano), una lavagna con su scritto “La classe operaia deve dirigere tutto”, si anima e si popola di un'umanità kitsch e grottesca: si va da Rino da Sora, accattone, ladruncolo e disoccupato cronico, a Raniero, in affascinante e antesignana crisi di coscienza politica. Parte dall'esistenzialismo (“nulla, compagni, v'è di più cupo che un'esistenza senza motivo”, p. 61; “Vegetare è un privilegio”, p. 108), passa per la sociologia (“E' il centro che conta, non la periferia. La periferia è ormai legata a doppio filo con il centro anche se in via d'estinzione”, p. 66), sprofonda nel nichilismo (mormorando che niente ha senso se non vivere, che l'aldilà non esiste: Dio è morto, Marx è morto...).
C'è infine Emilia, femminista, che vuole “ritrovare la politica nel privato quotidiano”, ha una “gran fretta di fare tutto” (e farsi Marco) e crede che “chi guarda la fica alle donne per strada sia un fascista (…) chi dice puttana a una donna è un fascista” (p. 102): accetta la possibilità di vivere un menage à trois, ma Ilario ha il cuore buono e non ci casca. Rimangono nudi senza riuscire a scopare, mentre Marco osserva per dimostrare e dimostrarsi quanto è superiore alla gelosia, al possesso della donna amata – che cosa piccolo borghese, dice quell'idiota. E poi vorrebbe ciclostilare un comunicato in cui i tre raccontano ai compagni della loro impotenza notturna, frustrante e indice di un'imperfetta cancellazione dell'identità nel nome della collettività, e via dicendo. Mi piace credere che le donne di Marco siano state, tra 1977 e 2009, tutte femministe e amiche dello psicanalista di turno: pronto a convincerle a darsi di qua e di là, come niente fosse, per vivere un'esperienza nuova e superare le inibizioni e conquistare il piacere assoluto (“sciolto”; da tutto).
*
Ilario, camminando, a volte sognava, come in “Zabriskie Point” (1970), “di vedere saltare in aria i bei palazzi che i miei occhi incontravano. Essi nascondevano lussuosi formicai, vere e proprie tane d'oro, per annoiati animaletti” (p. 31). Si ritroverà chiuso in casa, nella casa della sua famiglia, in paese, a leggere, meditare e scrivere, prima di decidere di andarsene via e di vivere una vita vera. La vita vera non è la casa in comune di un piccolo gruppo di comunisti che vogliono scoprire cosa sia la povertà e la generosità simulandole, come in un gioco di ruolo. La vita vera è magari una fabbrica in Germania, piena di operai italiani, un cesso per trentacinque cristiani, nella camerata. Là hanno già scoperto cosa significa “casa in comune”, e non è detto che ne siano entusiasti. Non hanno bisogno di sventolare la bandiera di un partito o di un'ideologia per rivendicare giustizia e libertà: se anche l'avessero, o l'avessero avuto, si sarebbero trovati traditi. Prima dai loro rappresentanti, infine dalla storia, e dall'intelligenza. L'ideologia ammazza: per prima cosa, uccide l'anima. Quindi, prova a rubarti il corpo. Infine, ti arma. Contro te stesso. Contro il tuo tempo. Il comunismo è un veleno: la letteratura l'unico antidoto.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Renzo Paris (Celano, 1944), romanziere, poeta, saggista e traduttore italiano. Professore di Letteratura Francese all’Università di Viterbo. Ha collaborato o collabora, sin dagli anni Settanta, con “Repubblica”, “Manifesto”, “Nuovi Argomenti”, “Pulp”.
Renzo Paris, “La casa in comune”, Cooperativa Scrittori, Roma 1977. Collana “Romanzi”.
Gianfranco Franchi, aprile 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Irreperibile, “La casa in comune” (Cooperativa Scrittori, Roma, 1977) è un buon romanzo di formazione e un affascinante documento della visione sociale e politica di un piccolo gruppo di universitari…