“Mr. President, Don’t Turn your Back! Recognize the Armenian Genocide!”, si leggeva nei cartelloni pubblicitari dell’Estremo Occidente, negli ultimi mesi, nella campagna mediatica della “Peace of Art”. La richiesta era accompagnata da una suggestiva immagine del Presidente Obama: Barack, arcano e criptico premio Nobel per la Pace, mostrava le spalle, non accennava a voltarsi. Non accennava a voltarsi nonostante quest’anno cadesse il centenario del genocidio degli armeni: nonostante sostanzialmente tutti gli Stati della sua nazione abbiano riconosciuto il genocidio, nonostante a questo punto manchi semplicemente – si fa per dire – il riconoscimento ufficiale governativo. L’amministrazione nordamericana riconosce come un fatto storico il “massacro” di un milione e mezzo di armeni, settanta percento della popolazione originaria. Non può chiamarlo “genocidio”, però, per via delle grottesche connivenze con l’alleato asiatico più improbabile e scomodo possibile: la Turchia. L’amministrazione nordamericana può pubblicamente dichiarare che un “pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti”, ma oltre non può andare: il Sultano non va offeso. Proprio come tanto tempo fa. Altrimenti saltano gli accordi: sia con la Turchia, sia con l’Azerbaijan, che è turco di lingua, cultura ed etnia. E se saltano gli accordi salta la condivisione delle preziose risorse energetiche azere, per esempio. Gli USA non sono l’unica nazione stranamente titubante, sul fronte del riconoscimento del genocidio. Sorprende la presenza di Israele, nel novero delle nazioni sussiegose e molto attente a calibrare le parole. Sorprende per ovvie ragioni. Naturalmente, esattamente come negli States, la popolazione ha le idee chiare, e così gli intellettuali meno servili. Su “Haaretz”, pochi giorni fa, si leggeva, in un articolo a firma Israel Charny e Yair Auron, che Israele aveva l’obbligo morale di riconoscere, almeno adesso, il genocidio armeno: anzi…“The history of our denial of the Armenian Genocide casts us in a light of being a manipulative, self-serving and dishonorable people. Justifiably so. It makes us cowards that to protect our once-upon-a-time relationship with Turkey and now to an increasing extent with Azerbaijan – a Muslim, Turkic-speaking state – we have sacrificed basic principle and integrity. Is that the Israel we believe ourselves to be – and want to be?”. Io credo di no.
Il dibattito pubblico degli ultimi mesi, nel nostro benedetto Belpaese, s’è concentrato sulla questione del mancato riconoscimento del genocidio da parte di Ankara; sono invece due delle nazioni occidentali più rilevanti e influenti, Stati Uniti e Israele, che vanno considerate oggetto del nostro dibattito. Questo non soltanto perché l’Italia ha riconosciuto il genocidio degli Armeni da quasi vent’anni: questo perché non possiamo essere guidati da una visione politica ambigua, vigliacca e connivente come quella di chi, piuttosto che ammettere la verità e rendere una almeno tardiva giustizia a un milione e mezzo di caduti, preferisce far passare l’accaduto come una sconcia e sanguinaria questione bellica, una deportazione coatta finita male, un incidente militare o giù di lì. Cose turche. Nella nostra sconcertante Europa, a far da contraltare al pessimo esempio nordamericano e israeliano, s’è stagliata la coraggiosa testimonianza di lealtà dei francesi: Hollande era in prima fila con Putin, al fianco degli armeni, quel 24 aprile che tanto simbolicamente si festeggiava ad Erevan. Il governo Pd del giovanissimo Renzi ha preferito dimenticare d’esser parte di quel consesso delle nazioni che per tempo ha tributato giustizia agli armeni, e un po’ all’americana s’è tenuto in disparte. Un’assenza disarmante, sinistra. Parecchio.
Vengo adesso a costruire un sentiero bibliografico ragionato e completo per dare manforte a quanti vogliano conoscere e approfondire la vicenda di quello che viene considerato dal consesso delle nazioni civili del mondo il primo genocidio del Novecento, martirio di un milione e cinquecentomila cittadini armeni, il 70% della popolazione armena allora vivente. Partirei con un viatico alla conoscenza della storia della nazione armena: si tratta de “Gli Armeni” di Gabriella Uluhogian, pubblicato dal Mulino nel 2009. Il libro è strutturato in cinque parti (“Dov’è l’Armenia”, “La storia”, “La Chiesa”, “La cultura”, “La diaspora”) ed è completo di indicazioni relative ad altre letture consigliate. A questo punto, passerei al saggio di storia fondamentale per decifrare dinamiche e logiche dei massacri ottomani tardo ottocenteschi e protonovecenteschi: si tratta del robusto “Genocidio degli armeni” di Marcello Flores, fresco di nuova edizione e di degne integrazioni e aggiornamenti bibliografici, sempre per Il Mulino. Nella nuova edizione, in appendice, si trova l’interessante saggetto “Fotografie del genocidio armeno. Memoria, denuncia, uso pubblico”, a cura di Benedetta Guerzoni.
A questo punto, il neofita sappia che i sentieri si biforcano: c’è una strada aperta per un ulteriore, degno approfondimento storiografico e un’altra dedicata a una prima empatica, appassionante e commovente trasfigurazione letteraria. A chi sceglie la prima strada suggerisco di procurarsi tempestivamente “Storia dell’Impero Ottomano”, a cura di Robert Mantran, ultima edizione Argo, 2011: un ricchissimo collettaneo che serve a orientarsi nelle vicende dell’impero che detronizzò e strangolò quello bizantino, a partire dal 1300, e delle genti che abitarono quei territori; è purtroppo limitato, impreciso e poco lucido proprio sulla drammatica vicenda del genocidio degli armeni, e sui massacri dei greci e degli assiri ad esso coevi, ma in compenso racconta con intelligenza e apprezzabile equilibrio il pregresso. È un lavoro di circa novecento pagine. Assieme, a beneficio di quanti vogliano conoscere cosa altro accadeva, in Anatolia, negli anni oscuri del genocidio degli armeni, consiglio il recentissimo “La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo”, opera di Andrea Riccardi, pubblicato da Laterza nel 2015; è un’opera degna, equilibrata e appassionata, puntinata di pietà per quello che Brunetau ha chiamato “Il secolo dei genocidi”.
Passiamo a chi ha scelto la seconda strada, quella della narrativa. Tre sono i libri fondamentali, ad oggi: tutti di facile reperibilità. Il primo è l’epico e massimalista tributo alla resistenza armena sul Mussa Dagh, opera dello scrittore ebreo austriaco Franz Werfel, nato a Praga nel 1890: “I quaranta giorni del Mussa Dagh” è disponibile nella traduzione di C. Baseggio, pubblicata dalla Corbaccio. Il secondo è il doloroso e coinvolgente esordio della letterata veneta armena Antonia Arslan, classe 1938: alludo ovviamente a “La masseria delle allodole”, pubblicato da Rizzoli nel 2004. Il terzo è l’elegiaco “Libro dei sussurri” di Varujan Vosganian, scrittore rumeno di sangue e cultura armena, già ministro dell’Economia di Bucarest. È stato pubblicato dalla Keller di Rovereto nel 2011, nella traduzione d’eccellenza di Anita Natascia Bernacchia, mezzosangue triestina. Vosganian ricorda che “tutti i metodi adottati per lo sterminio degli armeni sui tragitti dell’Anatolia, da Costantinopoli fino a Deir-ez-Zor e Mosul, furono impiegati in seguito dai nazisti sugli ebrei. La differenza è che nei lager nazisti i detenuti portavano dei numeri, e questa numerazione macabra ha aumentato l’orrore dei crimini contro il popolo ebraico. I morti provocati dall’azione di annientamento del popolo armeno non sono di più […] ma sono stati contati di meno”. Non c’è famiglia di armeni che non abbia un parente scomparso per mano turca. Non esiste. Ankara preferisce raccontare al mondo la storia di una deportazione di massa finita male.
Gianfranco Franchi, maggio 2015.
Prima pubblicazione: Ponte rosso, numero 1.
[per approfondire: WIKI en]