Einaudi
1974
9788806219642
“Chi oggi ha meno di quarant'anni non può immaginare il fracasso, il frastuono, e anche la comicità di quella caccia alla fattucchiera. La Morante fu accusata di speculare sulla sofferenza, di vendere disperazione, di propagare pessimismo, di avere messo in commercio un romanzo 'criticabile dal punto di vista marxista-proletario' […] Finalmente ci fu qualcuno che si decise a parlare di 'romanzo popolare'” (Garboli, Introduzione alla Storia, p. IX). Già: augusti critici del “Manifesto” (insospettabili, eh?), nel 1975, scrivevano che questo era un romanzo “mediocre” e “borghese”, “da criticare da un punto di vista marxista e proletario”: perché? Perché Elsa Morante non aveva mentito, e non aveva servito il loro Dio sovietico: scrivendo “La storia” aveva parlato, senza mezze misure, delle centinaia di migliaia di omicidi, delle violenze e delle infamie di Stalin, commisurandole a quelle dei regimi massacratori dell'umanità del Novecento. Reato? Ma manco per niente. Santa Elsa, che avevi il coraggio di dire a quella gente cosa era giusto, civile, sano e democratico, e cosa liberticida e assassino. Che non si poteva essere schierati dalla parte del male. Che non aveva senso. Che era un oltraggio a tanti innocenti ammazzati.
Naturalmente non era soltanto l'onestà anti-stalinista il problema. Un nodo era il riconoscimento delle distanze (abissali, incolmabili) tra l'anarchia e il comunismo: tra gli anarchici e i comunisti. Uno e uno su tutti era il baratro: quello dell'estraneità alla violenza, richiesta e necessaria per il vangelo marxista-leninista. L'anarchia, per la Morante [diciamo meglio: per uno dei suoi personaggi...] “non può ammettere la violenza. L'idea anarchica è la negazione del potere. E il potere e la violenza sono tutt'uno” (p. 225). E più avanti, con maggior chiarezza: “E la sola rivoluzione autentica è l'Anarchia! A-Nar-Chia, che significa: nessun potere, di nessun tipo, a nessuno, su nessuno! Chiunque parla di Rivoluzione e, insieme, di Potere, è un baro! È un falsario! E chiunque desidera il Potere, per sé o per chiunque altro, è un reazionario; e, pure se nasce proletario, è un borghese! Già, un borghese, perché, oramai, Potere e Borghesia sono inseparabili! La simbiosi è stabilita! Dovunque si trovino i Poteri, là ci cresce la borghesia, come i parassiti nelle cloache...” (p. 571). Mi sembra abbastanza chiaro che certi signori servi di partito potessero parlare di lei (dei suoi personaggi...) come “espressione della piccola borghesia”: a Mosca, e alle Botteghe Oscure, certi approcci libertari e umanissimi dispiacevano. Che peccato. Che peccato.
Più di tutto, alla cultura egemone dispiaceva una cosa. Che i partigiani romani fossero descritti, con poche eccezioni, come dei semplici figli del popolo, estranei all'alfabetizzazione, comunisti soltanto perché qualcuno aveva spiegato loro che il comunismo era il paradiso in terra, l'uguaglianza (sì, nella miseria: e non di tutti...) e che Baffone era un brav'uomo, nonostante qualche milione di morti sul groppone, e altri milioni in prospettiva. Ci potevano stare: erano per una giusta causa. E che uno di quei partigiani, poi, fosse stato un giovane fascista, partito per il Settentrione con la camicia nera, tornato a Roma con le idee rosse, subito cambiate nell'arte del contrabbando, nella vita da borsaro nero... ecco: questo era proprio blasfemo.
Insomma, tutto a un tratto la Morante cadeva in disgrazia agli occhi di quelli che decidevano cosa fosse cultura e cosa no: Garboli elenca nomi e cognomi degli articolisti d'antan, spuntano nomi non imprevedibili (Balestrini) e altri un po' fastidiosi, trent'anni dopo. Diciamo che mi viene una gran voglia di vedere pubblicato un libro fatto di recensioni della “Storia”, nel 2010, per proporre un sano esame di coscienza a chi era comunista, a chi comunista è rimasto, a chi dice che non è esistita la cultura egemone, a chi cerca tracce di qualcuno che ha saputo opporsi a quel sinistro giogo, da sinistra. Rinvio quanti fossero interessati alla prefazione di Garboli, e vado avanti. Tutto questo discorso introduttivo serve per porvi la stessa domanda che mi pongo da un pezzo, e che a quanto pare si poneva lo stesso Garboli già 15 anni fa: ossia, che fine ha fatto la popolarità e la centralità di un romanzo che all'epoca spopolò, e seppe conquistare il cuore di tanti lettori? Che fine ha fatto la narrativa della Morante, considerando che la sua lezione è viva e vincitrice, trent'anni dopo? Il rischio è che sia diventata pericolosamente antologica: che qualcuno voglia adattarla, per via della sua scrittura viva, appassionata e sempre elegante, anche quando sprofonda nella volgarità – in senso etimologico – a una semplice autrice scolastica. Tagliuzzata e confezionata a dovere. Cosa che la Morante non può essere, mi spiace, e mai sarà. È semmai un'autrice da sottoporre agli studenti universitari, per l'ampio respiro della sua scrittura, per la sua audacia (ripeto: va molto ben contestualizzata, recensioni dell'epoca alla mano), per la sua vivacità e per la sua letterarietà.
Cos'è “La storia”? Senza dubbio è un grande romanzo popolare e corale. Senza dubbio è la grande elegia del dolore e della sofferenza, emblematica ed esemplare, di una donna destinata a vedere morire tutti gli uomini che ama, figli inclusi. Senza dubbio è la trasfigurazione della nostra povera Italia sotto il fuoco della guerra, delle bombe e della guerra civile negli anni Quaranta. Ed è – fate attenzione – una lettura francamente partigiana di quel periodo; e tuttavia, miracolo, non è sporcata dal dogma: non è ideologizzata. Possibile? Possibile. È accaduto. Negli anni Settanta. A Roma.
Tutto quel che ne deriva e consegue è quindi semplice da sintetizzare: Elsa Morante diventa magnificamente credibile, perché nessuno ha la sensazione che stia scrivendo per ingraziarsi la maggioranza assoluta della critica, servilmente marxista, dell'epoca; tutti abbiamo la sensazione che la ragazza cresciuta tra Testaccio e Monteverde stia raccontando qualcosa che sente di dover raccontare, perché quel che racconta è la vita vera, e i sentimenti plausibili, di tutto il popolo romano durante il dramma.
Il respiro, poi, è magnificamente massimalista, a partire dal titolo. Scrivere un romanzo con un titolo del genere richiede, perdonate il francesismo, due palle così. Perché se scrivi qualcosa di falso, di stupido, di retorico o di sbagliato allora scatta il tiro al bersaglio, e principia la demolizione della tua credibilità e della tua identità autoriale. Ma se non scrivi niente di falso e di stupido, niente di retorico e niente di sbagliato, allora c'è bisogno di guardare al cielo e dire grazie, e applaudire. Applaudire il coraggio, applaudire l'onestà, applaudire la franchezza, applaudire l'ispirazione. E questo a dispetto dei tempi morti (non mancano... così come le ripetizioni) del romanzo, e di certa inevitabile aria melodrammatica. Va bene così. Io ti credo, Elsa Morante. E ti ringrazio. Molto. Ho apprezzato.
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Tutto ha inizio quando un soldato tedesco, Gunther da Monaco di Baviera, uno che sa quattro parole di italiano ma ha già imparato a farsi capire, prende, punta e violenta una povera donna italiana, già vedova e madre di un ragazzino. È una violenza descritta con lo sguardo di chi si sforza di comprendere la stupidità e l'aggressività degli uomini, ma senza freddezza. La punizione di Gunther è la morte al fronte, poco tempo dopo, nell'Africa che già andava mitizzando. L'unica cosa vera di quel ragazzo è aver detto alla ragazza che l'avrebbe ricordata per tutta la vita. “Per lui, naturalmente, non era che una frase. E la disse col solito accento millantatore e traditore di tutti i ragazzi quando la dicono alle loro ragazze. È una frase di figura, da usarsi per l'effetto; ma logicamente non vale, giacché nessuno può credere davvero di conservare un ricordo per tutta l'indescrivibile eternità che è la vita. Lui non sapeva invece che per lui questa eternità si riduceva a poche ore” (p. 74).
Da questo amore violento e unico nasce un bambino, Giuseppe, presto ribattezzato “Useppe” dal suo fratello maggiore, Nino, fascistello come tanti altri italiani, un po' incosciente, pieno di voglia di vivere. La mamma, Ida, è una maestra mezzosangue ebrea. Per lei stanno per cominciare i giorni dell'angoscia, e la Morante ci insegna e ci ricorda perfettamente perché: l'infamia imperdonabile delle leggi razziali, e della successiva adesione italiana alle mostruose strategie di distruzione di un popolo innocente dei nazisti, vengono qui ben descritte e rappresentate. Ida saprà scampare alle retate, ma noi osserveremo per bene tutto quel che la circonda.
Cominciamo da qui. “Del quartiere del Ghetto, svuotato internamente di tutta la carne giudia, non c'era restato altro che lo scheletro; ma anche in tutti gli altri rioni o quartieri, tutti i giudii di Roma, singoli e famiglie, erano stati scovati dagli SS che erano venuti apposta con una compagnia speciale, fornita di un elenco esatto. Li avevano pigliati tutti: non soltanto i giovani e i sani, ma gli anziani, gli infermi pure gravi, le donne anche incinte, e fino le creature in fasciola” (p. 237). Il viaggio di questa povera gente, cominciato nell'ottobre del 1943, ebbe durate diverse. E alla fine, “dei 1056 partiti in folla dalla Stazione Tiburtina, in totale 15 ne tornarono indietro vivi” (p. 311). E quelli che tornarono, eroicamente e stoicamente sopravvissuti ai lager, a Roma come altrove, erano irriconoscibili. Si capiva soltanto che erano ebrei. “Per il loro peso irrisorio e per il loro strano aspetto, la gente li riguardava come fossero scherzi di natura. Anche quelli di statura alta, sembravano piccoli, e camminavano piegati, con un passo lungo e meccanico, come fantocci. Al posto delle guance tenevano due buchi, molti di loro non avevano più quasi denti e, sulle teste rase, da poco aveva preso a ricrescergli una peluria piumosa, simile a quella delle creature. Gli orecchi sporgevano delle loro teste macilente, e, nei loro occhi infossati, neri o marrone, non parevano rispecchiarsi le immagini presenti d'intorno, ma una qualche ridda di figure allucinatorie, come una lanterna magica di forme assurde girante in perpetuo” (p. 376). E la gente, insegna Elsa, voleva rimuoverli, questi spettri di carne, come si rimuovono i pazzi o i morti nelle famiglie “normali”.
Mentre il piccolo Useppe cresce, Roma è scossa dall'angoscia dei bombardamenti. Quando cominciano a moltiplicarsi le incursioni alleate sul belpaese, tutti sperano e credono che l'Eterna venga risparmiata, come qualcuno aveva promesso al Papa. Intanto la gente, snervata e impaurita, moriva d'ansia. Le famiglie ricche s'erano già trasferite in campagna (ma Albano verrà fatta a pezzi...): e i rimasti, “incontrandosi in istrada, sui tram, negli uffici, si guardavano in faccia tra loro, anche tra sconosciuti, tutti con la stessa domanda assurda nelle pupille” (p. 161). Post 8 settembre, Ida e Useppe fuggiti per forza di cose, e per fortuna, nel quartiere di Pietralata, “zona sterile di campagna all'estrema periferia di Roma, dove il regime fascista aveva istituito qualche anno prima una sorta di villaggio di esclusi, ossia di famiglie povere cacciate via d'autorità dalle loro vecchie residenze nel centro cittadino” (p. 179), sentiranno man mano avvicinarsi i tuoni dei bombardamenti. Lo sbarco di Anzio illude per poco: negli ultimi mesi di occupazione tedesca, ad esempio, la città diventa “una moltitudine di sbandati e di mendicanti, cacciati dai loro paesi distrutti”, a bivaccare sui gradini delle chiese o sotto i palazzi vaticani; e “la nube disastrosa dei bombardamenti, che attraversava di continuo tutto il territorio provinciale, calava sulla città un tendone di pestilenza e di terremoto. I vetri delle case tremavano notte e giorno, le sirene fischiavano, e […] ogni tanto in qualche strada di periferia dirompeva con un tuono il polverone della rovina” (p. 324). Il resto potete immaginarlo, se ancora non lo avete letto. Se non lo avete ancora letto, lo leggerete, e vi farà male.
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Dal 1941 al dopoguerra c'è tanto; c'è la desolazione e la disperazione della rovina del belpaese, c'è l'occupazione violenta e omicida dei nazisti (almeno cfr. p. 252, accenno al ciclista fucilato perché si trovava da quelle parti, nel corso d'una rappresaglia: un episodio su tutti), c'è la fame, la miseria e la preoccupazione per chi è al fronte; ci sono quelli che non tornano affatto, e quelli che tornano cambiati; ci sono quelli che sognano il comunismo, e quelli che sognano l'anarchia, e quelli che comunque rimangono fascisti; c'è il dolore di una mamma che perde i suoi bambini, e infine rimane impietrita a domandarsi che senso abbia avuto tutto questo; l'unico, forse, è che nel futuro c'è un seme buono, nato nella carestia e nella morte, ed è destinato a fronteggiare l'oscurità di qualsiasi regime, e qualsiasi rovescio della sorte. È un seme composto di sentimento, pietà, dolcezza, non violenza. Un seme anarchico, non fascista, non comunista, non democratico. Un seme altro. Vorrei dire tante altre cose... vorrei parlare del primo cane dei figli di Ida, Blitz, probabilmente uno dei cani più teneri e romantici della Letteratura Italiana del Novecento; vorrei parlare delle vite di tutti i personaggi; vorrei parlare di quanto ho amato il dialetto romanesco che fa capolino qua e là, e quanto le descrizioni della nostra Capitale. Mi fermo. Perché questo romanzo – sì – è in tutte le case, e sono convinto che tutti lo abbiate letto. Fatelo, se ancora non è successo, pensando che tra cento anni i vostri nipoti lo considereranno come “I Promessi Sposi”, e che aiuterà a capire da dove veniamo, come popolo, e cosa è stato vivere nella metà del Novecento: a Roma: da popolo romano.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Elsa Morante (Roma, 1912 – Roma, 1985), scrittrice italiana.
Elsa Morante, “La storia”, Einaudi, Torino 1974. Prefazione di Cesare Garboli (1995). Include una nota bibliografica e una biografia di EM.
Adattamento cinematografico: “La storia”, di Luigi Comencini, 1986.
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Uno dei massimi risultati della narrativa italiana del Novecento.