Cacciatori di notte

Cacciatori di notte Book Cover Cacciatori di notte
Filippo Tuena
Longanesi
1997
9788830414365

“Tutto era silenzio. Infine, sulla linea dell'orizzonte notturno, la linea ondulata delle colline che si perdevano nella campagna, apparve la sagoma del lupo. Andava, la testa bassa, l'andatura obliqua e caracollante, attraversando il campo di grano. Di tanto in tanto si fermava ad annusare l'aria. Il suo folto pelo veniva smosso dalla brezza notturna, dall'aria marina salmastra che, mutata la direzione dei venti, invadeva i campi. Mandò, infine, il suo richiamo all'astro. Un lamento di amante deluso, abbandonato, disperato. Il mio animo si aprì alla malinconia, all'umor nero. Ma fu soltanto un attimo” [Tuena, “Cacciatori di notte”, p. 231].

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1997. Lo scrittore romano Filippo Tuena, quarantaquattrenne, pubblica il suo quarto libro di narrativa: è il terzo romanzo, a tre anni di distanza dallo spettrale, chimerico “Volo dell'occasione”. “Cacciatori di notte” è un'avventura simbolica, amara e romantica; una cupa parentesi licantropa d'ambientazione moderna e retrogusto vagamente ottocentesco, vicina e superiore al gotico del secondo Paolo Maurensig, per compostezza, gusto e misura, e prossima, nell'umanità, ai fumetti di Tiziano Sclavi, all'aristocratico “Dylan Dog” di fine anni Ottanta-primi anni Novanta, metà giallo metà horror metà poesia; l'ambientazione è coraggiosamente italiana – addirittura ci troviamo nel retroterra laziale, dalle parti del martirio della povera Goretti – e la scrittura conosce bel respiro e squarci emozionanti, in più d'un frangente, favolose reminiscenze o diretti riferimenti pittorici, vezzosi dialoghi.

Nelle parole dell'artista: “Cacciatori di notte” è “una storia di lupi mannari ambientata ad Anzio negli anni Sessanta. Chiude il mio periodo fantastico e credo che sia il mio miglior libro nel genere. Anzi, è una delle mie cose che preferisco in assoluto. Apparentemente è una storia dell'orrore. In realtà, soprattutto il finale, spiega bene che cosa avrei voluto scrivere e come. Ogni tanto penso di ripubblicarlo, ma mi trattiene ancora qualcosa” [fonte: sito ufficiale]. Per Corrado Augias, grande appassionato della letteratura tuena, “il fascino del libro è nei dubbi che riesce a insinuare sulla veridicità dei fatti narrati e soprattutto sul gioco tra passato e presente, giovinezza e vecchiaia”: un artificio un po' troppo studiato, forse, che finisce per ingolfare la narrazione, in qualche frangente. Raramente, è chiaro. Tuena ha troppa classe.

Due sono le storie che si vanno intrecciando: nel presente, l'antiquario Filippo Tuena prende un treno per andare incontro a un'inattesa eredità, vale a dire un casale di campagna alle spalle di Roma; non ha sostanzialmente nessun ricordo di questa generosa zia defunta, Consuelo, e non si raccapezza. Va meditando intanto sulle anamorfosi, “pitture quasi caricaturali, che sviluppano la prospettiva in maniera parossistica, stravolgendo completamente, nella visione corretta e ortogonale, il soggetto dipinto. Di solito l'identità del soggetto viene riconquistata quando si guarda il dipinto da una posizione laterale”.

In viaggio, incontra uno strano signore, magro, pallido e grigio come il vecchio Renant-Revenant del “Volo dell'occasione”. Si direbbe un vagabondo, o comunque un uomo che ha molto viaggiato. Ha qualcosa del prete, e qualcosa di diabolico. In men che non si dica lo sconosciuto stabilisce contatto e grande intesa, prima raccontandogli d'aver incontrato, un giorno, un tizio capace di dipingere le persone “in prospettiva”, invecchiandole, come in una speciale anamorfosi; quindi, vendendogli a un buon prezzo un revolver da taschino del 1888, tutto d'argento; infine, rivelandogli cosa trent'anni prima gli era successo, giusto da quelle parti, quando era stato chiamato laggiù. E questa è la seconda storia, ambientata nel passato: una caccia all'uomo [lupo] avvenuta nelle terre bonificate dai contadini veneti, romagnoli e friulani, in un'atmosfera sempre a un passo dallo strapaesano grottesco, sospesa in un'ostilità assoluta, malata d'una morbosa paranoia. Tanto morbosa che il cacciatore-guaritore s'accorgerà d'essere come “prigioniero di quel luogo”, “ostaggio di quelle persone”: in altre parole, d'essere un segugio braccato [p. 90].

Nel territorio c'è qualcosa che non va: “Forse è il libeccio, lo scirocco, i venti caldi che battono queste terre. La gente è diversa. E i delitti che commettono così astrusi, incomprensibili. A volte così furastici e bestiali che solo per sorte si risolve qualche raro caso. Perché succede questo, di strano: i delitti che avvengono qui sono gratuiti” [p. 55], spiega il maresciallo. Il caldo dà alla testa, “gonfia il sangue nelle vene, rapisce la ragione”. A venire braccato è un “uomo bestiale che nelle notti di luna piena misurava la campagna con la sua andatura obliqua e silenziosa e faceva scempio di bestie indifese, di agnelli dimenticati fuori dall'ovile, di bovini lenti e impacciati. Il carnefice di decine di povere galline” - un guardone che ossessionava le coppiette appartate, e forse un malato che ha ammazzato una cameriera innocente. Forse.

A guarirlo potrebbe bastare poco: “una benedizione, l'esposizione di un'immagine sacra, la recita di uno scongiuro popolare” [p. 104]. Ma prima va individuato, stanato e fronteggiato. In casi estremi, per abbatterlo serve l'argento: “Solo con quello si lascia ferire, forse perché ha lo stesso colore, la stessa fredda luce della luna, della sua amata. S'intenerisce allora e, come un amante illanguidito, non ha più difesa” [p. 60]. Ma a quanto pare questo non succede mai: non serve, non ce n'è bisogno. Il lupo non attacca l'uomo.

Il lettore potrebbe domandarsi, a un tratto, perché quel grigio uomo, in treno, sta raccontando tutto questo al povero Tuena. La risposta arriva soltanto nelle ultime battute del libro, in una drammatica agnizione famigliare – accompagnata da un epilogo allegorico, e comunque allucinato.

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Chiudiamo con un'annotazione biografica. La Palombelli, su “Repubblica”, dopo aver consigliato la lettura dei “Cacciatori di notte”, osservava: “Lo scrittore è figlio e nipote di celebrati antiquari – la galleria Tuena, in via Margutta, fondata dal nonno svizzero Fritz e gestita dai Cinquanta agli Ottanta dal padre Massimo, ha chiuso pochi anni fa – e ha trasferito nella letteratura la passione per l'arte, gli oggetti e i libri rari. Misterioso anche su se stesso, non ama le interviste, evita di farsi fotografare, non c'è la sua immagine sul risvolto di copertina del libro. Della sua famiglia, ama ricordare che 'veniamo dal cantone dei Grigioni, ch'è una terra di streghe'”. Streghe, certo. E cacciatori.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Filippo Maria Tuena (Roma, 1953), scrittore e antiquario italiano, laureato in Storia dell'Arte alla Sapienza.

Filippo Tuena, “Cacciatori di notte”, Longanesi, Milano, 1997. ISBN: 9788830414365.

Approfondimento in rete: Oblique + Wiki it

Gianfranco Franchi, marzo 2013.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Cacciatori di notte” è un’avventura simbolica, amara e romantica; una cupa parentesi licantropa d’ambientazione moderna e retrogusto vagamente ottocentesco…