Piano B Edizioni
2016
9788899271862
A sette anni di distanza, la strage di Viareggio sembra ingiustamente estranea al dibattito pubblico: è un peccato, perché decifrarne le dinamiche può contribuire a evitare che qualcosa di simile si ripeta; è assurdo, perché i morti sono stati tanti, e tutti innocenti; è un'ingiustizia, perché purtroppo si intravedono responsabilità strategiche e politiche a monte dell'incidente. A restituire l'accaduto alla centralità che merita sono stati la scrittrice toscana Ilaria Giannini, da Pietrasanta, classe 1982, e il letterato romano Federico Di Vita, suo coetaneo, già noto per un saggio sulle deprecabili condizioni dell'editoria nostrana, “Pazzi scatenati”: il loro appassionante e tristissimo libro, pubblicato dalla Piano B di Prato, con una copertina di Maurizio Ceccato, si chiama, provocatoriamente, “I treni non esplodono”. È una sorta di mosaico, costruito, tassello per tassello, da memorie, ricostruzioni e interpretazioni dell'accaduto, raccolte nel corso di tre anni di lavoro dai due autori; è un tributo alla memoria dei caduti e un equilibrato e compassato atto d'accusa nei confronti di chi, incresciosamente, giudica l'accaduto alla stregua di uno spiacevole episodio, o giù di lì.
I fatti. Viareggio, 29 giugno 2009. Un treno merci entra in stazione sferragliando e sbarellando. Quattrocento metri dopo, nonostante la frenata, deraglia. Quattordici dei suoi vagoni-cisterna sono carichi di gpl. Il gpl è estremamente infiammabile. La situazione è potenzialmente catastrofica. Uno di questi vagoni-cisterna si squarcia, complice, a quanto pare, il cattivo posizionamento di un appuntito picchetto di regolazione della curva. Il gas si disperde subito, rapidissimo. Si insinua nelle automobili, nel vicino garage della Croce Verde, nelle case nei paraggi. Tante finestre aperte: fa caldo. Il gas cammina dappertutto. Una strada intera prende fuoco. Crollano tre palazzine, sature di gas. Moriranno trentadue persone. Centinaia i feriti. Case carbonizzate, esistenze annichilite. Allucinante: un incidente ferroviario finisce per travolgere povera gente che riposava nelle sue abitazioni; motociclisti che passavano per quei paraggi; cittadini che stavano portando a spasso il cane.
Si poteva evitare? La risposta è piuttosto ovvia. Da anni, diversi cittadini avevano domandato un muro che separasse la strada dalla ferrovia, invano: quel muro avrebbe attutito l'impatto del gas. Non solo. A quanto pare, molte regole non sono state rispettate: quando si trasportano merci pericolose, la prima cisterna e l'ultima dovrebbero infatti essere “carri scudo”: dovrebbero essere vuote, o trasportare qualcosa di non infiammabile, per limitare la pericolosità del carico. Oppure, dovrebbero essere previsti “carri cuscinetto”: un carro di merci innocue si alterna a uno di merci pericolose, e così via. Non solo: a quanto pare, se ci fosse stato ancora un capostazione nelle piccole stazioni precedenti a quella di Viareggio, l'incidente sarebbe stato con ogni probabilità evitato. La politica di sconsiderati tagli del personale, personale spesso sostituito dall'improbabile occhio meccanico della tecnologia, ha figliato l'incapacità di anticipare o arginare la possibilità di un incidente come questo. Nel testo ci si domanda se la strategia di investire tanti denari nell'alta velocità non abbia eccessivamente pregiudicato la sicurezza dei cittadini, dei dipendenti e dei passeggeri: perché se così è, allora naturalmente si deve cambiare rotta, e cambiare approccio.
Ilaria Giannini e Federico Di Vita hanno raccolto interviste a testimoni, cittadini, coraggiosi volontari ustionati, antieroici e valorosi pompieri o impiegati dell'obitorio, ancora sotto choc; i due autori hanno assemblato dolorose e travolgenti registrazioni dei ricordi dei famigliari delle vittime, la deposizione di un bravo capostazione e le interessanti memorie di un suo collega, decano di Viareggio; hanno trascritto la deposizione dei due macchinisti, incolumi, e del deviatore; hanno restituito voce a chi più non può parlare.
Gianfranco Franchi
Prima pubblicazione: “Il Ponte rosso” numero 12
È una sorta di mosaico, costruito, tassello per tassello, da memorie, ricostruzioni e interpretazioni dell’accaduto, raccolte nel corso di tre anni di lavoro dai due autori; è un tributo alla memoria dei caduti e un equilibrato e compassato atto d’accusa nei confronti di chi, incresciosamente, giudica l’accaduto alla stregua di uno spiacevole episodio, o giù di lì.