EDB
2016
9788810558843
Esiste ancora piena coscienza, e legittimo orgoglio, che nel disordine nevrotico e nel ritmo scombinato della nostra epoca possa resistere la cultura antichissima del monastero, fondata sulla benedizione della koinonia: il monastero, “luogo di pace e di riconciliazione”, “luogo di ritorno alla fonte per chi cerca Dio”, testimonianza concreta della possibilità di una “vita cristiana nella sua integralità e radicalità”, istituzione generosa e solare: un luogo chiamato a essere “una prefigurazione del mondo nuovo che il Cristo è venuto a instaurare”. A parlare di questa integralità e di questa emozionante radicalità, con punte di profonda saggezza, è dom Jean-Marc Thevenet, abate d'Acey, cistercense, nel libro-intervista di Francesco Strazzari “La giornata di un monaco” [EDB, 2016; euro 10, pp. 120], dedicato a raccontare tutta una serie di aspetti di rilevante interesse: dal silenzio alla preghiera, dalla centralità della benedizione all'essenzialità del combattimento spirituale, dalla profonda coincidenza tra obbedienza e ascolto fino al senso di beatitudine figlio della carità. “La giornata di un monaco” è almeno un viatico alla meditazione e alla preghiera: può essere una sfida, e una ragione di un ripetuto esame di coscienza. D'altra parte, “i nostri cammini per andare a Dio sono sovente sinuosi con errori, cadute, delusioni. Il fallimento è sempre possibile”.
Sostiene l'abate Jean-Marc che la vita monastica non sia affatto una vita “riservata a degli specialisti o a degli eroi”: piuttosto, la considera essenzialmente “una vita battesimale, una vita in Cristo”: una vita apostolica, fondata sul coraggioso paradigma della prima comunità cristiana a Gerusalemme. L'abate ricorda che la vita monastica non è legata a nessun compito particolare, e a nessun impegno specifico; può essere provvisoriamente coinvolta in una missione (ospedaliera, missionaria, etc), ma il suo carisma rimane slegato da qualsiasi “fare” ecclesiale: è legato solo al suo “essere”. Si è spesso rimproverato ai monaci, riconosce l'abate, di essere addirittura inutili, perché non hanno un impegno nella città umana: “ma questa inutilità apparente è in effetti ciò che preserva la specificità del loro crisma”. È una vita differente e lontana dal mondo, non una vita marginale. È una vita di estenuante lealtà alle Scritture, di instancabile servitù a Cristo. Una vita di sacrificio e di rinunce.
In ogni caso, “la vita monastica non può essere assimilata a una qualsiasi delle sue note caratteristiche, che sono l'ascesi, la solitudine, la liturgia, l'accoglienza”, perché il monaco è per prima cosa un discepolo di Cristo chiamato, sotto la guida del Vangelo, a “dare testimonianza dell'essenziale della vita cristiana” e a “ricordare ai suoi fratelli e sorelle la specificità della loro identità cristiana”. E la regola suprema dei cristiani è una: la carità: l'amore. “L'accoglienza dell'altro – fratello, straniero, malato – è una delle prove più irrefutabili della sua autenticità”, glossa l'abate. L'altro: il fratello, lo straniero, il malato. Perché “la scoperta di uno sguardo che accoglie e che ama può cambiare la vita di una persona”: perché, e qui l'ispirazione cresce, “la benevolenza è veramente una benedizione per coloro che ci attorniano, perché fa circolare la vita tra noi, reinventa la strada di ognuno”.
Superbe le parole sulla preghiera. L'abate crede che la preghiera sia indispensabile al monaco quanto l'aria che respira; che anzi la preghiera sia il suo respiro stesso. Non basta: “È il suo soffio e la sua gioia, ma anche il suo tormento perché la preghiera è il luogo in cui il monaco scopre con più dolore la sua povertà radicale: il non saper pregare e le sue resistenze alla grazia”. La preghiera è puro desiderio di Dio: “è tutta la nostra esistenza che deve diventare preghiera”. La preghiera è il luogo per eccellenza del combattimento spirituale: non dimissione né attitudine indolente, scrive l'abate, ma cammino di verità e conformazione a Dio. E al combattimento spirituale il monaco è sempre chiamato: un combattimento interiore, contro se stesso, per stanare e disarcionare quel “male che aliena e falsa la relazione con Dio e con gli altri”, per poter accogliere, ogni istante, l'esistenza di Dio come una grazia e la vita come un dono irripetibile. È un combattimento estenuante, complicatissimo, e tuttavia il miracolo della misericordia di Dio e della solidarietà dei fratelli può riuscire ad alleggerirne il peso. “Vivere la fraternità secondo il Vangelo non ha niente di spontaneo” - ammette l'abate. “Esige un lungo cammino di conversione – quindi molta pazienza e misericordia – perché si sviluppi la reciproca fiducia”. L'ascolto e la condivisione vanno sempre perfezionati e approfonditi. Non c'è altra strada che superare i propri limiti.
Completano l'edizione una prefazione di Gérard Daucourt, vescovo emerito di Nanterre, e un buon capitoletto dedicato alla storia dell'abbazia di Notre-Dame d'Acey, fondata nel 1136, luogo di silenzio (“favorisce il ricordo di Dio e la comunione fraterna”, dice l'abate. Il ricordo di Dio, ripeto a me stesso, il silenzio è il ricordo di Dio), luogo di silenzio, dicevo, luce, armonia (“umile e audace”, la chiama Strazzari) e musica, nella Franca Contea, nell'antico regno dei Burgundi. Notevole.
Gianfranco Franchi, dalle parti di san Pancrazio, novembre 2016
Esiste ancora piena coscienza, e legittimo orgoglio, che nel disordine nevrotico e nel ritmo scombinato della nostra epoca possa resistere la cultura antichissima del monastero, fondata sulla benedizione della koinonia: il monastero, “luogo di pace e di riconciliazione”, “luogo di ritorno alla fonte per chi cerca Dio”…