Il Corvo di James O’Barr

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Once upon a midnight dreary, while I pondered, weak and weary, / Over many a quaint and curious volume of forgotten lore –/ While I nodded, nearly napping, suddendly there came a tapping, / As of some one gently rapping, rapping at my chamber door. / «’Tis some visiter,» I muttered, «tapping at my chamber door – /Only this and nothing more»” (Poe, “The Raven”).

Sta bussando il tuo destino, di assassino di assassini. “Il Corvo”, opera d’arte creata da James O’Barr tra il 1981 e il 1989, è un fumetto di singolare bellezza e di tetro fascino. La storia narrata vive in un presente di sangue e in un passato solare spezzato dalla violenza; il contrasto tra due tempi è il contrasto tra i due mondi che il protagonista, Eric, è costretto a vivere.

La sua compagna, Shelly, è stata assassinata da un gruppo di teppisti circa un anno prima; lui stesso è stato massacrato, ed è rimasto a terra nello scontro. È avvenuto un cortocircuito, nella vita di Eric: noi non sappiamo cosa sia avvenuto durante l’anno intercorso tra la tragica morte della sua compagna e il nuovo ritorno di Eric. Qualche indizio porta a credere che Eric sia morto, e che sia tornato a vendicare quelle morti ingiuste con la protezione dell’unico testimone degli omicidi, un corvo (antico guardiano dell’aldilà, antico traghettatore di anime); altri indizi, suggestivi e sinistri, convincono il lettore che Eric non sia morto, e sia sopravvissuto alle ferite; che, per dolore e rabbia e disperazione, abbia acquisito dei poteri.

Quel che accade nella storia è presto raccontato; Eric torna da “un altro mondo” per farsi giustizia, e va a cercare, uno ad uno, gli assassini della sua donna. Inizia a fare terra bruciata attorno a loro; li terrorizza; infine li aggredisce, e – lentamente – li uccide. Più nemici uccide, più il dolore per l’amore perduto lo lacera e lo indebolisce; i ricordi dei giorni trascorsi con Shelly lo corrodono e lo abbattono. Esiste forse un amore più grande della morte; un sentimento che sappia andare “oltre”; se quel che i due sentivano, uno per l’altra, era autentico, lui non può che superare gli antichi limiti degli uomini, e tornare per vendicare e uccidere chi ha ucciso, e attendere d’esserle così ricongiunto.

È una storia gotica, è una storia d’amore, è una storia di spettri e una storia grandguignolesca; è allegoria della naturale ripugnanza degli esseri umani per la morte, e rappresentazione del desiderio di valicarne e violarne i limiti e i confini; è un fumetto dallo stile cupo e – per noi lettori italiani – dalla sensibilità affine a Dylan Dog; non siamo testimoni d’una violenza insensata, assistiamo a delle violenze atroci, ma (condivisibili?) motivate. È una storia fondamentalmente romantica; un grido d’amore e un inno ai sentimenti; è dolce il canto di Eric e Shelly, e amaro il rimpianto per quel che hanno perduto. La storia emoziona, seduce, rattrista e commuove; è amore puro, in arte.

Il film tratto dal fumetto ha avuto grande fortuna, qualche anno fa; al punto tale che, ovviamente, non sono mancati sguaiati e grossolani sequel a quello che doveva essere un capitolo unico. “Il Corvo” doveva rimanere invece un film unico: soprattutto, io credo, per rispettare la tragica sorte occorsa all’attore protagonista, Brandon Lee. Tragica davvero la sorte del Corvo: James O’Barr iniziò a scriverne la storia nel 1981, dopo essersi arruolato nell’esercito per dimenticare la morte della propria futura moglie, investita da un pirata della strada poi fuggito; Brandon Lee è stato ucciso, sul set,  a pochi giorni dal termine delle riprese; stava per sposarsi. “Il Corvo” è una storia di morte e amore, e qualcuno dal momento del terribile epilogo dell’esistenza di Brandon Lee ha voluto parlare di maledizione, registrando le tetre analogie tra le vite dei creatori del personaggio; di fronte alla morte, chi scrive preferisce non dir niente, e soprattutto non parlare di destino. Quoth the Raven: «Nevermore»”.

Numerose le differenze tra la pellicola omonima di Proyas e il fumetto: le più notevoli denunciano delle scelte di sceneggiatura che, quando non colpevolmente tradiscono l’argomento dell’opera, almeno provvedono a deciderne sfumature e a dettagliarne le zone d’ombra. Quindi, se nel fumetto, di Eric e Shelly, sappiamo solo che vivevano un grande amore e stavano per sposarsi, nel film si racconta invece che Eric era chitarrista e che di cognome faceva “Draven”. Facile e non arbitrario ricordare che al suono “Draven” si può associare “The raven”, e cioè – “Il Corvo”, con (non allusiva, ma scoperta) citazione (omaggio?) alla splendida poesia di Edgar Allan Poe. Nel film la coppia viene assassinata nelle prime scene: scompare qualunque traccia dell’incidente automobilistico e si racconta un’aggressione domestica; quel che mi sembra più grave, al di là dei cambiamenti e delle modifiche “circostanziali”,(ma possibile che il cinema debba sempre tradire le opere di riferimento?) è che Proyas “interpreta” un aspetto della trama che andava, probabilmente, mantenuto inalterato. Ossia: nel fumetto, nessuno afferma che Eric sia morto: non c’è possibilità di decifrare se sia diventato una creatura sovrannaturale e rimane enigmatica la figura della guida, il Corvo appunto, e ciò comporta totale onirismo e limpida visionarietà. 

Nel film, invece, non c’è nessun dubbio: Eric torna a vendicare l’uccisione della sua compagna direttamente dall’aldilà. Peccato: perché la questione dell’incertezza sulla natura di Eric/Corvo valeva la pena d’esser mantenuta inalterata, quantomeno per fedeltà all’idea del suo creatore; e, se non per fedeltà, perché di certo era questione d’altro fascino e d’altro spessore trovarsi di fronte una creatura, non più tra i vivi e non mai tra i morti, che tornava ad uccidere chi aveva distrutto la sua vita e sradicato i suoi sogni dalla terra.

In altre parole: nel caso del fumetto, Eric è un simbolo: nel caso del film, è uno spettro. La distinzione è importante: storie di spettri ne sono state scritte a migliaia, storie di archetipi (o di simboli eccellenti) appaiono in casi eccezionali.

Superfluo dire cosa si preferisca incontrare nelle esperienze estetiche. Le descrizioni puntuali e precise annoiano, stancano e nauseano; le evocazioni e le allusioni vanno a nutrire la nostra avida immaginazione. Il rock – ad essere corretti, il dark rock e il post-punk – è stato il primo motore di ispirazione; gli albi abbondano di citazioni e richiami e sono permeati di atmosfere che ricalcano o rievocano brani di quei gruppi che O’Barr trovava particolarmente affini al suo spirito e al suo stato d’animo: il numero uno è dedicato a Ian Curtis, leader suicida dei Joy Division. L’aspetto di Eric è ispirato a Peter Murphy dei Bauhaus e a Iggy Pop; O’Barr ha sempre smentito d’aver voluto ispirarsi a Robert Smith dei Cure, pure abbondantemente omaggiato altrove (ad esempio, tra le pagine appare il testo di “Hanging Garden”). Per quanto concerne l’influenza esercitata dai Joy Division, piovono davvero prove inconfutabili: tra i personaggi, due (Hook e Albrecht) hanno il nome del bassista e del chitarrista del gruppo; Atmosphere, New dawn fades e Atrocity Exhibition sono tra i titoli dei paragrafi; i testi di Komakino e Decades scandiscono il passaggio da un albo all’altro. Tutto questo contribuisce a connotare non solo l’atmosfera del fumetto, ma lo spirito stesso dell’opera verso sonorità cupe, tetre, introspettive; è opera malinconica e maledetta al contempo, disperata e allora certamente contraddistinta da una “luce dell’origine” che è incandescente e inestinguibile; e questa luce dell’origine è l’amore che univa Eric e Shelly, che niente ha potuto dissolvere, neppure la morte.

Questo fumetto è essenzialmente un’opera rock; la traduzione su tavola dello spirito e delle voci di un movimento di artisti che, sostanzialmente in un triennio, hanno inciso il loro nome nella storia della musica; indenni al tempo e alle tante mode, sponsorizzate da media omologanti come mai in passato, gli artisti dark rock hanno costituito un prototipo, dal punto di vista musicale, etico ed estetico (in generale) rispetto al quale oggi sono in tanti a dover manifestare rispetto e a dover tributare un riconoscimento: non sempre accade, e il nome di Ian Curtis è spesso trascurato e censurato. Questo significa che si va a uccidere ancora una volta un poeta che ha perduto la vita, per ragioni eternamente inspiegabili, a ventitre anni. Certamente “The Crow” è l’occasione per tornare sui primi passi del gruppo di Manchester; e per rispolverare i primissimi dischi dei Cure e dei Bauhaus. Ascriviamo a O’Barr questo grande, ulteriore merito.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

James O’Barr (Gennaio 1960), soggettista, sceneggiatore, disegnatore e musicista americano.

James O’Barr, “The Crow” (Il Corvo), numeri 0, 1, 2, 3, General Press, Roma, 1994.

Le prime tavole del Corvo risalgono al 1981. Dopo otto anni di traversie editoriali, l’artista americano pubblica il fumetto per i tipi della Caliber Press nel 1989; l’opera verrà rieditata per i tipi della Tundra negli anni 1991-92, con significative correzioni e vari ampliamenti (approfondimento dell’essenziale sezione dei flashback dedicati alla storia d’amore di Eric e Shelly). Possiamo considerare la versione della Tundra quella definitiva. Per i collezionisti, segnalo un’edizione di poco successiva che allega agli albi il cd del gruppo (sfortunato, ma mediocre) di O’Barr: i “Trust Obey”.

Film: “The Crow”, di Alex Proyas, con Brandon Lee. Usa, 1994. (Home-Video: Medusa).

Cd: “The Crow”, Atlantic, 1994. (The Cure, The Jesus and Mary Chain, Nine Inch Nails, Medicine con la Fraser, Rage Against the Machine e altri: gli artisti sono stati selezionati dal creatore del fumetto e numerosi sono stati i brani scritti esclusivamente per la colonna sonora del film. La canzone “Burn” dei Cure contiene, ad esempio, frammenti della sceneggiatura del fumetto. Mancano, tuttavia, tracce dei due gruppi che più influenzarono James O’Barr nel periodo della creazione dell’opera: i Bauhaus e, soprattutto, i Joy Division: c’è però almeno una cover di “Dead Souls” di Trent Reznor).

Gianfranco Franchi, marzo 2003.

Prima pubblicazione: Lankelot.