Le vele di Astrabat

Le vele di Astrabat Book Cover Le vele di Astrabat
Antonio Messina
Il Foglio Letterario
2010
9788876061578

Il terzo libro di Antonio Messina è un’opera strutturata in una introduzione, due “atti unici” intervallati da un interludio, un epilogo; virgoletto a ragione, nel senso che questa architettura ho voluto e dovuto ricostruirla con qualche difficoltà, post terza lettura, cadendo nel tranello del “romanzo”. L’epilogo assimila, forzando un po’ la mano, due vicende che sembravano vivere di vita propria e del tutto autonoma; la prima è quella del vecchio robot Neilos, impegnato in una autodistruttiva missione sul pianeta Astrabat, per scoprire il segreto dell’immortalità (in tripla rinascenza). Neilos si sente, sin dal principio, destinato alla morte; quindi, per amore di Neha, trionfando su un doppio gioco e su tutta una serie di misteriose e minacciose voci esterne, si sacrifica per negare le sue ricerche agli umani malvagi.

La seconda è una stravagante cosmogonia, filosofico-fantascientifica, fondata “sull’antica profezia dei Cerchi di Talete” (p. 87): “Dopo il caos primordiale, i quattro elementi, Terra, Aria, Acqua e Fuoco, prima uniti, si erano scissi, formando così due mondi distinti, ma pur sempre simili, in quanto costituenti l’essenza dell’essere. Acqua e Terra formarono le terre del Sole Pallido, mentre dall’Unione dell’Aria e del Fuoco nacque il mondo oltre le zone di confine, appunto la Città del Silenzio: i Cerchi di luce energetica”; assieme, è la storia d’amore tra Otlan e Atzelil, Cerchio di luce femmina, brillante e intelligente, che viaggiava per riunire gli elementi e plasmare un mondo “perfetto”.  L’epilogo – svelo qualcosa perché altrimenti non riesco a mettere assieme i pezzi – rivela, come una matrioska, che l’apparenza esteriore di certi personaggi nascondeva una sola essenza. Omnia vincit amor. Sin qua ci siamo.

L’idea di entrare in una nuova dimensione mi allettava. Dimenticare e rinascere, dopo aver vissuto una vita mediocre: era questo il mio desiderio? Ero rimasto a galleggiare negli abissi del tempo (…)” – scriveva Antonio Messina in un racconto pubblicato nel suo secondo libro, “La memoria dell’acqua”. Era un passo essenziale, prodromico a un’opera nuova: in questo libro, “Le vele di Astrabat”, l’argomento princeps si direbbe proprio essere l’immortalità. Dal Santuario del Silenzio del libro esordio, “L’assurdo respiro delle cose tremule”, alla Città del Silenzio di questo nuovo romanzo, non mancano richiami e ritorni simbolici sui propri passi: l’opera di Messina si caratterizza per una piacevole riconoscibilità, concettuale e stilistica. Il suo protagonista è sempre un uomo alla ricerca; stavolta, eppure, a un tratto ammette: “Non ero obbligato a cercare, esisteva l’oceano dentro di me” (p. 25) e tuttavia avanza, a esaudire la sua missione. Robotico e umanamente fumoso e caotico.

Attraverseremo i tramonti di fuoco dei deserti di Astrabat, per restituire (l’idea?) il perduto amore alla vita; la sua esistenza è giustificata dalla purezza dei sentimenti, dalla trasparenza, dall’idealità. Gli esseri umani, nella loro nuova allegorica forma di creature Migranti (programmatori di nuova generazione), cercano il segreto dell’eternità per avidità: incapaci d’altro che non sia odio, distruttività e grettezza, vengono abbandonati a un cupo pronostico di morte in vita: “non vogliamo l’amore, ma l’immortalità” – e si sentono infettati dalla presenza del diverso. La descrizione delle loro attività sul pianeta non è eccessivamente impenetrabile, sebbene di “voci” si tratti: “(…) traversano di fretta la città (…), s’infilano nell’edificio. Parlano, si azzuffano, frugano tra le carte della scrivania, digitano codici, e poi corrono via al crepuscolo” (p. 18). Astrabat è ingannevole e tutto appare irreale (p. 25): il segreto è che siamo e non siamo, tra sogno e realtà (p. 32), negli stessi fiumi scendiamo (p. 57).

Sulla caducità si riflette così: “Siamo stati creati per provare istanti di felicità, ma solo una volta possiamo percorrere il fiume, risalire la foce e incontrarci nel mezzo. Le Vele proseguiranno a solcare gli spazi, leste e silenziose si allargheranno al vento della sera, si muoveranno leggere come un respiro notturno, dilagheranno in spazi inviolati, ma non dureranno per l’eternità. Un giorno dovranno fare i conti con la morte: è questa la nostra natura, è questo il destino degli uomini, sulla Terra e in qualsiasi punto luminoso dello spazio” (p. 56).

Inalterata, rispetto alle opere precedenti, la densità della scrittura; una densità che accompagna trame sicuramente ciclopiche, sintetizzate sino all’eccesso, con qualche inevitabile problema in sede di lettura dell’opera. Messina dà per acquisita la capacità del lettore di entrare nei suoi mondi – qui c’è addirittura una cosmogonia, come accennavo – ma l’impressione di aver perduto per strada qualche nesso e qualche passo risolutivo rimane, e disorienta. Quasi come esistesse un altro libro, da qualche parte, che racconta con ordine il principio e l’evoluzione della storia, risolvendo le zone d’ombra. Oppure, ma sarebbe sin troppo lineare: come se le due storie principali fossero originariamente indipendenti, e fossero state solo successivamente amalgamate. Lasciando qualche visibile cicatrice.

Spesso le trame si ritirano per lasciar spazio alle descrizioni, e la concentrazione del lettore se ne va a spasso, a cercare senso e significati nei colori del pianeta, per esempio, invano; preferendo una lettura immaginifica, fatalmente costretta alla ricostruzione di scenari riga dopo riga, a una analitica. I nomi dei personaggi rimangono, tendenzialmente, stravaganze indecifrabili e purtroppo deconcentranti, soprattutto quando si succedono con grande rapidità, confondendo il lettore. Sono suoni estranianti.

Si fatica a capire, a un tratto, se certi personaggi e certe dinamiche siano tutte davvero necessarie o se semplicemente vadano considerate funzionali a una torrenziale, urgente riflessione filosofico-esistenziale. Che a questo punto dovrebbe acquisire altra e diversa centralità, liberandosi dai dettami della narrativa.

La chiave, stavolta, mi sembra essere la differenza tra chi crede nell’amore, nella bellezza e nell’appartenenza indissolubile tra due anime, e chi invece piomba nella materia, e sulla materia fonda la sua esistenza. Per riuscire a trarre questa conclusione, in poche righe, ho letto tre volte il libro, cercando di sciogliere tutta una serie di contorsioni, immagino mie e mie soltanto: limite di lettore, dichiarato e rivendicato. Leggendo, spesso, pensavo: “Oddio, non ci capisco più niente”. E tornare indietro non serviva.

Caro Messina, stavolta mi sono arreso: a un tratto, mentre pianeti deserti si popolavano di ombre di vita metropolitana, antivirus e antispia apparivano sui monitor a rivelare bug nel robot, e l’umanità si rivelava solo come antitesi alla vita di chi ama l’amore, mentre i Cerchi fondano la vita, ho allargato le braccia e ho ammesso che Astrabat è uno stato mentale, non un pianeta. Uno stato mentale.Nella tua scrittura mi ritrovo volentieri, ma confido che certe volte ti perdo proprio dal punto di vista narrativo, e non riesco più a capire di cosa mi stai parlando. Mi si spegne l’impianto della luce, in testa, e rimane solo un gruppo elettrogeno: diciamo così. A quel gruppo m’aggrappo, tornando indietro invano. Fino a un certo punto capisco, poi mi confondo e mi disoriento, poi brancolo e alla fine mi dico “ah, ecco, era questo allora”. Ma non mi confortano le fiammelle d’una intuizione o due, io vorrei comprendere a fondo. Stavolta, onestamente, fallisco.

Non saprei proporti analisi differenti, questo è quanto. Con la sconfitta del tuo amico recensore si chiude questa pagina: spero di innescare desiderio di lettura proprio per la dichiarata provvisorietà e parzialità di questa analisi, orgogliosamente e onestamente debole. Mi sono perso.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Antonio Messina (Partanna, Trapani, 1958), scrittore italiano. Vive a Padova. Ha esordito pubblicando “L’assurdo respiro delle cose tremule” nel 2003.

Antonio Messina, “Le vele di Astrabat”, Il Foglio Letterario, Piombino 2007. Prefazione di Monica Cito.

Gianfranco Franchi, settembre 2007.

Prima pubblicazione: Lankelot.