Einaudi
2002
9788806159023
Il saggio di Mario Lavagetto (docente di Teoria della Letteratura all’Università di Bologna, autore di pagine critiche sull’opera di Saba, Svevo, Freud e Proust) è uno studio legato all’epifania della menzogna in un campione di opere letterarie prescelto dall’autore, privo di intenti classificatori e monografici e vincolato essenzialmente all’analisi della messinscena della bugia. L’opera è strutturata in dieci capitoli, suddivisi a loro volta in brevi paragrafi.
Nella premessa, l’autore sostiene d’essere giunto dall’esplorazione dei lapsus al territorio della menzogna, esaminando le “minuscole cicatrici disseminate sulla superficie di un’opera letteraria” (p. IX): come Jankélévitch, afferma che ad ogni momento la bugia sia minacciata dalla verità, che il più piccolo lapsus possa riportarla alla luce, che l’errore – in sostanza – sia una delle chiavi d’accesso fondamentali alla segreta e ingannevole dimensione della menzogna. “Nella bugia – scrive – si possono distinguere due momenti: l’occultamento della verità e la costruzione d’un racconto falso. I due momenti non si implicano necessariamente: la verità può essere nascosta grazie a una semplice omissione, di cui un abile bugiardo riesce a mimetizzare o a confondere le tracce. Ma anche il racconto falso può essere indipendente dalla necessità o dal desiderio di occultare qualcosa; allora è ‘gratuito’ e sembra non avere, almeno apparentemente, alcuno scopo: la bugia, in tal caso, è premio a se stessa” (p. 7).
Il primo capitolo, “Un viaggiatore senza testimoni”, è dedicato all’Odissea. Lavagetto analizza la tecnica menzognera di Odisseo a partire dal tredicesimo canto: il viaggiatore è stato deposto, nel sonno, dai Feaci sulle coste di Itaca, e stenta al suo risveglio a riconoscere la sua patria. L’incontro con un (sedicente) giovane pastore svelerà all’eroe omerico il compimento dell’atteso ritorno. Lavagetto si sofferma sui primi movimenti di Odisseo: dalla gioia, si passa subitamente all’occultamento della verità. Odisseo è consapevole che pronunciare immediatamente la verità rappresenti un rischio, e dunque inventa una storia creandosi integralmente una nuova identità. Atena svela il suo travestimento, esternando il suo apprezzamento per l’abilità dialettica di Odisseo: la sua saggezza coincide perfettamente con la sua non veridicità. Non sarà forse un caso, allora, se sul sentiero del ritorno al palazzo si presenti un Odisseo magicamente mutato dalla Dea, completamente irriconoscibile e libero di inventare ancora nuove identità: l’artefice sommo delle menzogne si incarna, fisicamente, nella menzogna. Il travestimento non è perfetto in ogni sua parte: il cane Argo riconosce l’antico padrone, la vecchia Euriclea nota la cicatrice della ferita infertagli dal cinghiale sul Parnaso. Questo perché “il travestimento, per essere perfetto e garantire lo spazio rassicurante dell’anonimato, deve presentarsi come un tutto compatto e uniforme: ogni indizio corporeo, ogni particolare, ogni dettaglio deve essere trascritto nella nuova lingua che si vuole mettere in scena. Qualsiasi residuo rappresenta di per sé un rischio, perché può attivare imprevisti circuiti di ricezione” (p. 23).
Lavagetto evidenzia le condizioni necessarie e sufficienti perché “una bugia sia circoscritta e riconosciuta in un testo letterario: è indispensabile che il mentitore si contraddica o venga contraddetto; che inciampi nelle proprie parole o nelle parole del narratore che gli sta alle spalle o ancora in quelle di un testimone oculare che ha il compito di dire la verità” (p .8).
Se il narratore è onnisciente, e può opporre la sua verità alla falsità di un personaggio, il lettore può orientarsi confidando nella detenuta verità del narratore: ma se il narratore è un personaggio, la bugia è difficilmente identificabile e può essere scambiata per un’interpretazione errata o per una falsa conclusione (pp. 187-188). Tuttavia, la forma della menzogna è «assolutamente autonoma e sfugge, di per se stessa, ad ogni giudizio di verità: non solo possono esserci “racconti bugiardi” raccontati con arte perfetta e tale da farli apparire immancabilmente “veri”; ma ancora – e di più – ci sono, possono esistere, reciprocamente “racconti veri” raccontati senza forma e che, perciò, appaiono “falsi”» (p. 32).
Al solito, comandamento primo e basilare di chi mentisce risulta essere l’avere buona memoria (p. 17; pp. 84-85): indizio primo, invece, o avvisaglia di menzogna è la garanzia del parlante di totale franchezza o pura verità (p. 26): anche Guido Almansi nei “Bugiardi” giungerà ad una conclusione analoga, discutendo della figura di Lelio nel Goldoni.
Ulteriore elemento a favore dello smascheramento della menzogna è il linguaggio corporeo: poco più avanti, nel quarto capitolo, si scrive: “il corpo è il ricettacolo del bugiardo, il suo rifugio, il luogo dove nascondere e comprimere la verità: può tradirlo con il rossore, l’atto mancato, il balbettio” (p. 82).
Nel secondo capitolo, dedicato alla “Storia Vera” di Luciano e alle “Avventure del barone di Munchausen” di Raspe, incontriamo un paradosso interessante, a proposito della verosimiglianza: “L’incredibile, in ogni caso, è un lusso che nessun bugiardo sembra potersi concedere: perché se la verità fosse davvero, come ci è stato suggerito, sempre verosimile, allora potremmo dire che la menzogna è quasi sempre verosimile”(p. 39).
Allarmante, ma probabilmente condivisibile. Notevole, nel capitolo sesto – Un’impresa senza esempi, riservato ad un’ampia discussione sulle “Confessioni” di Rousseau – la tipologia della menzogna stabilita dallo scrittore francese. Può esistere: l’impostura, quando si mente per vantaggio personale;la frode, quando si mente a vantaggio di altri; la calunnia, quando si mente con l’intento di nuocere; la “bugia innocente”, quando si tace o si deforma una cosa di nessuna utilità o non si arreca alcun danno: è semplice finzione (p. 153).
Mi sembra interessante registrare, nella storia della letteratura e della filosofia, la frequente attestazione di tentativi di interpretazione, e successivamente di distinzione, dei tipi di menzogna: a questo punto, potremmo dedurre che esistano menzogne lecite – o meglio, atteggiamenti dissimulatori leciti – e menzogne illecite – o almeno, eticamente odiose. L’intenzione di mentire sembra la comprovata aggravante della menzogna: la pura creazione, la menzogna intesa come gioco, in un certo senso, o alterazione superflua o comunque non dannosa né vantaggiosa, è ritenuta tendenzialmente accettabile. Infine, neppure i segni possono costituire una garanzia, giacché “sono anfibi e ammettono, quasi sempre, più di una interpretazione. Ogni segno può essere menzognero o veritiero; può essere del tutto preterintenzionale o può obbedire a una intenzionalità inconscia, a una irresistibile e notturna coazione a confessare” (p. 255).
Lavagetto, nella ricerca delle epifanie della menzogna in Proust, Collodi, Svevo, Luciano, Omero, De Laclos, Rousseau ed altri autori, delinea un universo letterario consacrato con singolare e totale spontaneità alla menzogna: difficile non tentare di trasporre le riflessioni originate dalle analisi dei testi all’epifania della menzogna nella comunicazione quotidiana.
La letteratura diviene specchio della comunicazione: studiare il significato dell’apparizione della menzogna nelle opere letterarie significa, probabilmente, studiare il significato dell’apparizione della menzogna nelle relazioni umane.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Mario Lavagetto (Parma, 1939), docente di Teoria della Letteratura all’Università di Bologna, autore di pagine critiche sull’opera di Saba, Svevo, Freud e Proust.
Mario Lavagetto “La cicatrice di Montaigne”, Einaudi, Torino, 1992.
Gianfranco Franchi, 2002.
Breve articolo tratto dalla tesi di laurea “La menzogna nella Letteratura del Novecento”. A ruota, è apparso su Lankelot.