Hacca Edizioni
2008
9788889920183
Primo atto d’una trilogia che verrà pubblicata entro fine 2008, “1967” è opera prima di Cristiano Ferrarese, narratore ligure classe 1970. Il giudizio sul libro va quindi considerato almeno parzialmente sospeso, in attesa di scoprire quale sarà la rotta dell’intreccio, quali gli assi portanti e quali le reali ambizioni dell’autore. Per adesso – giugno 2008 – trattando (erroneamente?) “1967” come libro a se stante, si possono evidenziare tre aspetti cardine.
Il primo: se consideriamo la punteggiatura respiro dell’anima, allora l’anima dell’io narrante – un pazzo internato in manicomio, del tutto incapace, sembra, di distinguere l’incubo dalla memoria, in piena e ossessiva crisi mistica – è frammentata e lacerata. Dimenticate qualsiasi altro segno d’interpunzione non siano i tre puntini, con poche eccezioni: questi … sono l’immagine dominante del libro. Piovono a dirotto. Nient’affatto céliniani, chiariamolo subito, con buona pace della non occasionale citazione dell’artista del “Viaggio” a metà libro (e per quanti avessero dubbi sulla natura dei puntini di sospensione emozionali dell’artista francese, cfr. “Colloqui con il professor Y”, passi relativi all’invenzione della c.d. “emozione del linguaggio scritto”), i puntini dell’esordiente Ferrarese sono l’espressione dell’incapacità del pazzo di decifrare e disegnare e simulare correttamente la realtà. Magari Ferrarese potrebbe innamorarsi di certe pagine di Selby, potrebbero avere un impatto abnorme sulla sua influenza primaria. Comunque – quando il narratore mette il punto – non sempre avviene – è che la pagina di questo suo diario sta terminando, oppure s’è sbagliato (cfr. p. 44, p. 47).
Il secondo: il misticismo dell’io narrante, il folle internato – e forse scisso, come vedremo – è uno degli aspetti più seducenti e suggestivi dell’opera. Almeno fin quando non piomba nel noir, sogno o memoria trasfigurata che sia adesso poco importa: allora Ferrarese va a stuzzicare un genere che personalmente non digerisco, e trovo francamente stucchevole. Gusti, quindi fregatevene. Peraltro sono gusti poco condivisi, in minoranza sono io a trovarmi. Le prime pagine di questo suo diario sono lettere rivolte a Gesù – da un inferno, un inferno d’una stanza bianca e fredda, avvolta da un silenzio malato. Il paziente è prigioniero d’un quotidiano che non muta, di razioni di pane e acqua, vivendo – bel passo – nel “sottosuolo della dignità”. Il suo è un eterno presente, come in una sclaviana Zona del Crepuscolo: è lucido percependo le sue (inter)azioni come ripetizione meccanica. Tra le ripetizioni atroci, ecco psicofarmaci ed elettroshock – questa scrittura è un artificio capace di mostrarne le cicatrici.
Il terzo: ambientazione e contesto. Le memorie si riferiscono a Busalla, cittadina originaria dell’io narrante (e dell’autore); la datazione parrebbe plausibile per via non tanto della presenza degli psicofarmaci (più basagliana che ante-basagliana, a voler essere onesti, almeno in quei quantitativi: soprattutto, se consideriamo quanto raccontavano i suoi grandi antagonisti, Tobino e non solo) quanto per le plurime integrazioni – omaggio limpido, e territoriale – riferite alla morte di Tenco (relative reazioni degli ossessi internati incluse: omicidio o suicidio?).
Altri elementi da vagliare e approfondire nelle successive opere: il narratore si direbbe un ex becchino – altra reminiscenza sclaviana? “Dellamorte Dellamore”, Buffalora – e proprio come il Francesco Dellamorte nato dalla fantasia del genio di Broni ricostruisce o rimuove omicidi, che spesso lui stesso ha dovuto seppellire. D’altra parte, l’attendibilità del narratore è quantomeno sospetta, considerando pure l’ambigua epifania d’un io narrante donna, forse esistente forse no, altrettanto mistica (si definisce Cristo Donna). Ogni notizia fornita andrà vagliata in itinere.
Annotiamo, oltre a qualche omaggio letterario discretamente extradiegetico (Bianciardi, “La vita agra”), una pulsione distruttiva e autodistruttiva bene espressa, un vagheggiare la morte che potrebbe nascondere un passato da poeta – almeno domestico – e come indizio finale relativo a una probabile allegoria (satira?) sul mondo dei manicomi un racconto di Cristicchi piazzato, con disinvoltura, in bandella (“Il relitto”).
Quanto basta per grattarsi la fronte e domandarsi cosa ci attende al varco nei mesi a venire. Intanto, dopo esservi fatti spiazzare a dovere, nell’attesa accettate un consiglio: rispolverate l’esordio di Morici, “Matti slegati”. Servirà.
Superba – al solito – la copertina dell’artista Maurizio Ceccato.
“Non differire il tuo destino, non aspettare e cammina… sei solo e non può essere così… non fidarti di nessuno… sali e non guardarti indietro… il limite è vicino… la tua missione si sta compiendo…” (p. 77).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Cristiano Ferrarese (Busalla, Genova, 1970), scrittore italiano. Vive e lavora in provincia di Mantova.
Cristiano Ferrarese, “1967”, Hacca, Macerata 2008. Bandella di Simone Cristicchi. Copertina di Maurizio Ceccato.
Gianfranco Franchi, giugno 2008.
Prima pubblicazione: “Lankelot”.