ISBN Edizioni
2010
9788876381539
“Siamo stranieri; in questo paese ci chiamano ladri, traditori, vigliacchi, ci portarono su ammucchiati nei vagoni bestiame, tenuti a bada con i fucili. Un giorno hanno detto che eravamo liberi, non si capiva di cosa: di lavorare e patire come prima, da prigionieri […]. Siamo sperduti, parliamo, facciamo dei gesti senza conoscere delle parole, delle cifre di salvezza. Non sappiamo che quando si lavora e non si lavora, quando si mangia e si dorme. […] è sempre inverno. Questa guerra e questo assedio del cuore. […] Ogni sera è uguale, lo sconforto del giorno che verrà dopo, e non si può avere una speranza, fabbricarsela” [p. 9; p. 15; p.17; p. 24].
1944. 1945. Tommaso pensa che l'inverno non sia una stagione, ma uno stato dell'anima. Tommaso è un soldato italiano, un soldato italiano giovanissimo. Un soldato italiano prigioniero dei tedeschi. La guerra sembra non finire mai, la nostalgia di casa non conosce intervallo. La normalità è diventata un sogno, la quotidianità è un carcere a cielo aperto. Italiani, polacchi e ucraini costretti ai lavori forzati. A lavori incomprensibili, ripetitivi, alienanti, estenuanti.
“Noi siamo gli umani offesi, gli umani umiliati: questa è la nostra ferocia, queste sono le nostre voci, cantiamo nel buio, è meglio non guardarci negli occhi. Siamo prigionieri della neve, del freddo, della miseria. Cantiamo, ma non è una difesa, è impotenza” [p. 46].
Il prigioniero Tommaso è l'alter ego di Oreste Del Buono, uno che era partito in guerra, volontario, ventenne, con l'incosciente entusiasmo del ragazzino; uno che era partito per ripetere l'esempio di suo zio, Teseo Tesei, avventuriero e idealista, grande studioso di filosofie orientali ed eroe di guerra, caduto a Malta, in azione. Nella “Testimonianza” pubblicata nell' “Antimeridiano”, sua figlia Nicoletta racconta che il padre si ritrovò internato nei campi di concentramento tedeschi, post 8 settembre, e finì “al lager di Gerlospass, nelle montagne della Zillertal, non lontano da Innsbruck […]. Il suo incarico era tirare su pali del telegrafo […].La vita del campo era dura, durissima: freddo, neve, fango, orari estenuanti, marce infinite, indumenti inadatti malgrado qualche rara spedizione da casa, aguzzini e compagni di sventura uniti, salvo qualche raro caso, da una comune antipatia” [p. XXXVII].
Secondo Guido Davico Bonino, “Racconto d'inverno” è “in sé e per sé un romanzo concentrazionario, a specchio di un'esperienza realmente vissuta dall'autore, tra settanta e più italiani, polacchi e ucraini, come lui costretti al lavoro forzato tra la neve e il ghiaccio di un sempiterno inverno del Tirolo” [“Antimeridiano”, 2010, p. VIII). Siamo di fronte, secondo il letterato torinese, a un “laico itinerario di un'anima, prigioniera del presente e in attesa di un futuro sgravato da ogni 'peso di dolore'” [p. IX).
Sergio Antonelli, in “Letteratura italiana '900”, volume IX, ha evidenziato che “Racconto d'inverno” è “uno dei primi documenti di guerra o di prigionia che si sono avuti in Italia e che hanno iniziato, se non proprio un genere, una linea di ricerca espressiva di non poco rilievo nella narrativa”.
Silvia Sartorio, nella “Notizia sul testo” in appendice, riferisce che “Racconto d'inverno” è stato originariamente pubblicato nel novembre 1945 per le Edizioni di Uomo, in una tiratura di mille esemplari. Secondo la Sartorio, nel titolo è ravvisabile “l'eco di un romance shakespeariano, 'Il racconto d'inverno' appunto, molto probabilmente ricordo di una lettura giovanile” [p. 1599].
A distanza di sessantasei anni dalla prima pubblicazione, “Racconto d'inverno” ha mantenuto intatte, soprattutto nella prima metà dell'opera, una grande passionalità, un discreto lirismo, un'apprezzabile fedeltà alla sofferenza e alla frustrazione che chi ha conosciuto la prigionia ha dovuto imparare a sopportare giorno dopo giorno, per mesi, per anni interi, dimenticandosi di esistere, di avere un nome, di poter essere qualcosa d'altro, altrove. C'è qualche artificio retorico che l'artista, negli anni a venire, avrebbe deplorato, finendo per considerare questo suo esordio poco più che un esercizio di stile, un memoir “distorto ed enfatizzato” della sua esperienza nei campi di prigionia. Al di là della presa di distanza autoriale, “Racconto d'inverno” rimane decisamente vivace e vivido. E credibile, soprattutto quando Del Buono si sforza di rappresentare l'immobilità del tempo, l'angoscia della distanza, del freddo, della fame, del nullo cameratismo: la disperazione d'un ragazzo che non vedeva più futuro, in altre parole. Ma un futuro si sarebbe saputo conquistare.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Oreste Del Buono (Isola d'Elba, 1923 - Roma, 2003), è stato scrittore, traduttore, editor presso Rizzoli, Bompiani, Garzanti. Ha diretto “Linus” e collaborato con numerose testate tra cui “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Panorama”. Esordì in narrativa pubblicando il romanzo “Racconto d'inverno”, memorie della sua prigionia di un anno e mezzo, in Germania.
Oreste Del Buono, “Racconto d'inverno”, in “L'antimeridiano. Romanzi e racconti. Volume primo”, ISBN, Milano, 2010. A cura di Silvia Sartorio. Con un saggio di Guido Davico Bonino e una testimonianza di Nicoletta del Buono. ISBN, 9788876381539.
Prima edizione del romanzo: “Racconto d'inverno”, Edizioni di Uomo, 1945. Quindi, Scheiwiller, 2003.
Approfondimento in rete: WIKI IT / Repubblica
Gianfranco Franchi, novembre 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Romanzo concentrazionario, a specchio di un’esperienza realmente vissuta dall’autore…